venerdì 16 dicembre 2011

Cerchi concentrici



CERCHI CONCENTRICI

non soffiano più
quei furiosi venti di passione 

solo fitta nebbia
dalle pendici del cuore
fino a valle
nelle desolate pianure dell'anima

scorrono tristi i ricordi
fiumi impetuosi
nei profondi solchi delle mie cicatrici

seduto sulla sponda
dell'immenso lago della sua mancanza
io lancio tutti i miei sassi

e nei cerchi concentrici
svanisce il suo volto

che lo specchio dell'acqua riflette
ogni giorno
dentro ai miei occhi.

sabato 8 ottobre 2011


ODIAMI AMORE



Odiami amore,
odiami con tutte le tue forze,
mentre io brucio
mentre ti prendo.
Odiami e se vuoi gridalo forte,
mentre mi stringi
mentre ti doni.
Odiami amore,
con quei pugni chiusi
a picchiarmi sul petto,
mentre ti bacio
mentre ti guardo in silenzio.
Odiami col tuo viso di luce
dal sapore di sale,
mentre giuri che parti
mentre invece poi resti.
Odiami io non ti temo,
poiché so che l’odio
che mi rovesci addosso
è solo il tanto amore
e i suoi dannati eccessi.
Odiami amore
ma poi ti prego baciami,
mentre t’amo e non fuggo
mentre m’ami e ti struggi.


(Mario Contini 2011)

giovedì 28 ottobre 2010

BENVENUTI NEL MIO NUOVO BLOG!

Prima  stanza: ALFREDO


1

Mentre con molta delicatezza la lama del mio bisturi penetra nel suo ventre lui mi fissa, neppure un gemito, anche se il dolore deve essere insopportabile… E’ troppo intento a chiedersi: “perché?”
E già so che non avrò il tempo di spiegarglielo, anche se voglio che soffra tanto. Un taglio preciso, non troppo profondo: non voglio toccare organi vitali… per ora. Adesso si lamenta; l’ho imbavagliato per bene, non può gridare ma i mugugni sono sempre più potenti. Sta provando dolore il bastardo.
«Ciao Alfredo, ben svegliato!»
Lo guardo dritto negli occhi e intanto continuo a tagliuzzarlo…
«Come stai, è tanto che non ci si vede eh?».
Mi guarda, non mi riconosce…. già è vero: ho la mascherina da chirurgo. Ora la tolgo, voglio vedere la sua faccia quando capirà chi sono.
«Così va meglio? Ti ricordi di me?»
I suoi occhi stanno per uscire dalle orbite; certo che mi  riconosce!  Tra lo stupore totale e il dolore ancora più intenso gli mostro un bel pezzo del suo ventre tra le mie mani!!!
«Tranquillo, non soffrirai ancora per molto: ti sto iniettando della morfina. Il suo effetto durerà qualche ora… ti voglio lucido per un po’!».
L’emorragia si è fermata, lo lascio solo. Sono stanco... troppo stanco.
«Ci vediamo dopo, Alfredo. Nel frattempo pensa, cerca di pensare; non ti lascerò parlare, non ne hai il diritto e comunque  chiedere pietà o clemenza non ti servirebbe a niente: sei già stato condannato! Consolati pensando che non sei solo qui, proprio no. Questa casa è grande... molto grande: ci sono sette stanze. Sì hai capito bene, sette; e ognuna con un ospite. A dopo».
Lo lascio senza perdere di vista i suoi occhi; non ha bisogno di parlare, dicono tutto!


2

Ho comprato questa vecchia bicocca per due soldi, sperduta, lontano da tutto. Che tranquillità, che pace! A volte, nelle giornate senza vento, sembra quasi di poter sentire sbocciare le rose selvatiche, il giardino ne è pieno. Sono questi i momenti che adoro: primo pomeriggio, allungato sul mio divano; e penso,  ricordo...
Mi capita di ripercorrere la mia vita cominciando dalla tenera età, forse perché è stata il più bel periodo per me. Eh già, nonostante tutto, ero felice allora. I miei genitori,  immigrati italiani trasferiti in Francia negli anni Cinquanta, si sposarono lì dopo un breve fidanzamento. Io sono nato quasi subito, il primo di quattro figli, il primo maschio, ma a differenza della maggioranza dei papà, il mio desiderava una femmina. Lo feci già arrabbiare appena venuto al mondo! Questa cosa adesso mi fa sorridere ma allora le ho prese spesso da mio padre, a volte anche troppo! Contrariamente, tuttavia, a quello che ogni strizzacervelli  potrebbe dirmi, le mie azioni, quelle attuali, non nascono da un’ infanzia terribile a causa di mio padre; in fin dei conti ero sereno. Abitavamo in un paesino bellissimo, casette a schiera tutte uguali, rosse con il tetto in legno color ciliegio. Avevamo un bel giardino, piccolo ma con l’altalena e lo scivolo, e dietro casa ricordo un immenso terreno incolto dove l’estate si potevano ammirare intere distese di papaveri e margherite; ne sento quasi ancora l’odore.
Mia madre, che donna: quattro figli in cinque anni! Eppure riusciva a stare dietro a tutti noi, eravamo sempre impeccabili, puliti e belli, e ricordo gente che si complimentava con lei. Quanto ne andava fiera! Ma tra lei e mio padre non funzionava: lui era troppo diverso dall’uomo che aveva sempre sognato. Così un giorno lo mollò: nel 1970 lasciò mio padre. Ci prese tutti e quattro e ci portò con lei in Italia; qui cominciò il mio inferno!
Beh, è ora di tornare da Alfredo, magari ha bisogno di qualcosa....



3

L’effetto della morfina sta passando; è incredibile quanto si possa capire guardando semplicemente le espressioni di un viso o dello sguardo di qualcuno che non può parlare! Ora gli occhi di Alfredo dicono parecchio: sta soffrendo molto, e tra poco sarà peggio, o sì... molto peggio.
«Ti sono mancato? Sai Alfredo, ero di là a rilassarmi un po’, e pensavo al passato. Mi è venuto in mente un aneddoto che riguarda il padre di mia madre. Molto tempo fa, poco dopo la guerra, la gente viveva dei prodotti della terra e allevava animali;  così anche mio nonno con mia nonna. Mia madre mi raccontò che possedevano una capra, dava loro latte quotidianamente. Un giorno mio nonno piantò dell’insalata, la capra riuscì a slegarsi e la mangiò quasi tutta. Lui, a detta di mia madre, non disse nulla, andò in casa, rovistò nella sua cassetta degli attrezzi e ne trasse una pinza; tornò dall’animale, le aprì la bocca e le spezzò tutti i denti ad uno ad uno...!»
Ora sta urinando per la paura e il dolore ma me lo aspettavo. Dovrò togliergli il nastro adesivo dalla bocca: non ho nessuna voglia di sentirlo urlare....
La casa è isolata, distante chilometri da qualsiasi altra abitazione. Ho anche reso tutte le pareti a prova di qualunque rumore: tutto perfettamente isolato e insonorizzato, eppure le sue urla saranno così forti che ho paura che qualcuno possa udirle. Ma no, sono tranquillo...
Gli mostro una grossa pinza: questo lo terrorizza ancora di più, conscio di quello che sto per fargli. Sono costretto con una cinghia ad immobilizzargli la testa e a sollevarla un po’ azionando il meccanismo sotto il tavolo. Con uno sforzo non indifferente riesco ad inserirgli un divaricatore nella bocca e un aspiratore che gli impedisca di soffocare con il proprio sangue. Afferro un incisivo, lo spezzo in un colpo...
«Urla, urla quanto vuoi, è solo il primo, e da quel che posso vedere ne hai ancora parecchi. Li hai curati bene i tuoi denti!»
Continuo così, ad uno ad uno: gli incisivi e i canini si spezzano facilmente e, malgrado le sue urla possenti,  riesco a percepire il rumore quando si rompono.
Somiglia molto a quello di un ramo secco calpestato; sì, molto simile.
Afferro un premolare inferiore; come presumevo è molto più difficile. Con tutta la mia forza faccio leva sulla pinza, non si spezza. Al secondo tentativo il dente viene fuori interamente, compreso di radice, lasciando un buco enorme nella gengiva. La bocca gronda sangue, monconi di denti e gengive lacerate; penso possa bastare. Tralascerò i molari: troppa fatica. Ha perso i sensi, lo prevedevo.
Ora mi siedo un po’ e riprendo fiato: aveva denti solidi il caro Alfredo! Sono in un lago di sudore, soddisfatto e sconvolto allo stesso tempo. Mi tremano le mani e anche le gambe: non basta volerle fare certe cose, mi rendo conto di quanto sarà difficile. E ripartono i miei pensieri, ritorno indietro nel tempo, a quel mese di settembre del 1970 quando, con le mie tre sorelle e mia madre, arrivammo in Italia.










4

Avevo otto anni, ero felice, come lo sarebbe stato qualsiasi ragazzino che intraprendeva un simile viaggio: cose nuove, posti diversi, facce mai viste. Ricordo quanto ero eccitato. Durò poco, tuttavia: mia madre trasferì noi quattro figli in un piccolo paese sul mare e fu costretta a metterci in un collegio amministrato da preti per poter lavorare.
Ricordo il direttore, un prete anche lui. La cosa che mi colpì da subito fu l’unghia del pollice della mano destra, di una lunghezza smisurata. All’inizio mi chiedevo il perché; lo capii quando un giorno mi prese per il collo, e sentii quell’unghia entrarmi nella pelle.
Eravamo un centinaio di ragazzi e tutti o quasi avevamo una cicatrice sul collo. La maggior parte dei miei compagni era orfana e ricevevano raramente visite, alcuni mai. Io ero uno dei più fortunati: mia madre veniva a trovarmi più o meno ogni due mesi. Non parlavo l’italiano, solo il francese, e questo mi causò parecchi problemi. Mi capitava spesso di sentire la parola “cazzo” che veniva ripetuta più volte al giorno dai miei compagni. A me dissero che voleva dire “pazzo” e ci credetti: non ero uno stupido; anche se avevo solo otto anni ero un ragazzino molto sveglio, sempre il primo della classe in Francia...
Già, in Francia... quanti lieti ricordi!
In quel collegio, invece, con il mio carattere piuttosto timido, la erre moscia e l’aria impacciata di chi non capiva una parola della lingua, passavo per lo scemo del posto, la vittima designata per le burla e le risa dei più grandi.
Così cominciò il mio calvario.
«Vai dall’assistente, dai, va a dirgli che è “un cazzo”!!!»
E io ci andavo: ero felice che mi tenessero in considerazione nonostante fossi appena arrivato; ignaro di essere, in realtà,  solo lo strumento dei loro giochi.
Non so quante volte si ripeté questa cosa; cercavo di imparare al più presto l’italiano, ma, anche se apprendevo abbastanza rapidamente, oramai ero diventato lo zimbello di tutti, persino di preti e di assistenti.



5

«Alfredo, mi stai disturbando, lo so che ti fa male ma abbi pazienza: tra poco sarà tutto finito. Non  costringermi a tapparti di nuovo la bocca. »
Quanto sangue! Potrei lasciarlo morire dissanguato, ma ho in mente una cosa molto più divertente... per me si intende.
«Guarda il soffitto, Alfredo: vedi quella piccola carrucola? Lo so che per te in questo momento è difficile mettere a fuoco, ma sforzati, ti prego. Attaccata ad essa riesci a scorgere quel filo con un grosso amo all’estremità?»
Non gli ho sventrato l’addome solo per farlo soffrire; ora appenderò le sue budella a quell’amo e azionerò la carrucola. Un meccanismo molto semplice: mi è bastato fissarla al soffitto e collegarla ad un motorino elettrico. Dispone di un piccolo interruttore per azionarla posto sulla colonna in cemento al centro della stanza. Incurante del corpo che si contorce sul tavolo di acciaio afferro le sue interiora e le appendo all’amo. Premo l’interruttore, alimentando così il piccolo motore. Il ronzio è appena percepibile. Via via che il filo si tende e sale, vedo le sue interiora alzarsi, simili a serpenti affascinati dai flauti dei loro incantatori. Un brivido pervade il mio corpo: sapevo che tutto ciò mi sarebbe piaciuto, ma non immaginavo così tanto.
Con lui ho finito, è andato. Mi ha dato parecchie soddisfazioni il mio caro Alfredo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Seconda stanza: ALESSANDRO



























6

Le stanze della casa sono vicine una all’altra…..in un attimo sono nella seguente, quella di Alessandro, il caro vecchio Alessandro. La seconda si presenta esattamente come le altre: circa cinque metri di lunghezza e quattro di larghezza. Pavimento, mura e soffitto nella stessa tinta, color grigio sporco; anche in questa vi è un tavolo in acciaio al centro, scaffali in metallo anch’essi grigi, pieni di materiali di ogni sorta. Un armadietto a due ante sulla destra dell’entrata e una sedia. Le porte molto spesse e completamente ermetiche impediscono persino il diffondersi di cattivi odori che inevitabilmente non tarderanno a manifestarsi, anche se ovunque qui sotto, grazie ai climatizzatori, ho una temperatura costante di circa ventidue gradi. Non ho avuto il tempo di lavarmi le mani, un particolare che non sfugge all’uomo sul tavolo che mi guarda entrare.
«Ah vedo che sei sveglio. Lo so, lo so: sono tutto imbrattato di sangue, ti spaventa? Ahahahahah!!! Non preoccuparti, prima di occuparmi di te sarò come nuovo, tutto pulito!»
Deve aver provato fino ad ora a liberarsi: i suoi polsi e le sue caviglie sono lividi. L’ho legato a pancia in giù, completamente nudo…. Tra un po’ me lo lavorerò per bene... oh sì... non ha idea di ciò che l’aspetta!
Prendo la sedia e mi accomodo accanto a lui.
Dalla sua posizione con la faccia in giù tenta goffamente di guardarmi ma, a differenza di  Alfredo, non leggo stupore nei suoi occhi, solo paura, tanta. Appare quasi rassegnato, però, quasi sapesse perché si trova qui. Ha gli occhi che gli escono dalle orbite, cerca disperatamente nella stanza con lo sguardo una via di fuga.
«Stavo ripercorrendo la mia vita, partendo da lontano, da molto lontano, e per un po’ voglio continuare a farlo qui con te. Non disturbarmi.»

7

Come un lampo si palesano davanti ai miei occhi altre immagini.
Alessandro continua a fissarmi, ma io ora sono altrove...
Ripenso alla mia vita in collegio, alla cattiveria degli altri ragazzi verso di me, alla violenza di chi ci educava, ai pianti che quasi ogni notte si udivano in quegli immensi dormitori…
Tutto si riaffaccia nella mia memoria con la nitidezza e l’incisività di una foto appena scattata. C’erano ragazzi di tutte le età, dalla prima elementare alla terza media. Io non conoscevo la lingua e per questo fui messo in prima, benché avessi già fatto la seconda in Francia; ma vista la mia capacità di apprendere ci rimasi ben poco e, nello stesso anno, mi  catapultarono in terza. La scuola non era all’interno del collegio: dovevamo uscire e fare più o meno  due chilometri a piedi per arrivarci. Era una scuola pubblica, dunque frequentata anche da allievi dell’esterno e con professori anche loro provenienti da fuori. Ricordo la professoressa di italiano, la sola forse che capiva i miei problemi, la sola che adoravo in quegli anni. All’epoca aveva già sui sessant’anni, ma era ancora una bella donna. Capelli biondi sempre a posto, sembrava tutti i giorni appena uscita dal parrucchiere. Poche rughe e grandi occhi blu, spesso nascosti dietro a occhialetti che portava perennemente appesi al collo. E che stile! Elegante nei suoi vestiti, che arricchiva con enormi spille abbinate sapientemente agli abiti.
Quando assegnava un compito, spesso sceglieva il mio come esempio e lo leggeva ad alta voce a tutti. Per me era fantastico, una rivincita sugli altri che si mordevano le labbra. Difficile descrivere le sensazioni che quell’insegnante  suscitava in me: accanto a lei, almeno nell’ambito scolastico, mi sentivo bravo, forte e sicuro, il numero uno.
L’ennesimo lamento di Alessandro mi riporta alla realtà.
«Bene, ti lascio solo per un po’, vado a farmi una doccia.»
Mi incammino verso la porta e lo sento agitarsi di nuovo...
«Ah dimenticavo: preparati! Tra un po’ soffrirai parecchio. Spero che tu non abbia problemi di emorroidi!»



8

Quello che ho in serbo per lui è tremendo, spaventa un po’ anche me. Non so neanche come ho fatto a partorire una tale idea degna delle scene efferate del più profondo dei gironi danteschi. Entro nella doccia sorridendo. Finirà come finirà, non mi importa, ma sto facendo quello che desideravo fare da tantissimo tempo, e niente e nessuno potrà fermarmi.
L’acqua tiepida mi scorre sul corpo; rimango immobile con le mani  contro la parete della doccia. Niente da fare, quelle immagini riaffiorano: non posso fare a meno di continuare a pensare a quei momenti del passato, non ho mai smesso di pensarci. In tutti questi anni non è trascorso un giorno senza che tutto mi tornasse in mente. Si presentano davanti ai miei occhi come se accadessero ora: troppo il male che mi è stato fatto. Quante volte avrei voluto gridare in faccia a tutti che non ero diverso da loro, che non ero un deficiente, ma il grido mi rimaneva in gola, sempre, e comunque; ero incapace di farmi capire, e restavo nel mio silenzio, sperando che chi si prendeva gioco di me si stufasse al più presto... Certo, se si fossero limitati alle parole, alle risate e agli scherni avrei sopportato meglio, ma non è stato così, purtroppo.


9

Nella primavera del 1973 gli assistenti che ci sorvegliavano decisero di portarci fuori. Erano sempre i soliti cinque o sei, che si alternavano giornalmente. Quando ripenso a loro, ai loro metodi per educarci, la rabbia mi invade in un attimo. Li odiavo tutti, in particolar modo uno. Mi sembra ancora di vederlo, con quei lunghi capelli neri e ricci e quegli enormi baffi. I suoi occhi erano di ghiaccio e, in tutti quegli anni, non ricordo di averlo mai visto sorridere. Non aveva nulla di umano quell’uomo; non a caso il suo soprannome era “la cosa”.
Andammo in un posto bellissimo, un monte vicino al collegio che si chiamava “Monte d’oro”. Che nome ironico! Ma a me quel posto piaceva: ovunque c’erano enormi rocce, e molte erano scavate al loro interno formando piccole grotte bianche. L’erba altissima e i cespugli spinosi rendevano difficile perlustrarle tutte, ma io vedevo ciò come una sfida. Quando potevo cercavo sempre di scoprirne una nuova. Era una giornata splendida, e quella mattina mi avevano lasciato in pace. Speravo continuassero, non mi illudevo, ma ne ero felice. Ci avventurammo lungo un sentiero molto stretto e, malgrado la salita fosse abbastanza ripida, si camminava speditamente in fila indiana. Ma il destino mi voltò le spalle e io commisi l’errore di chiudere la fila, o forse fecero in modo che fosse così… chissà.
Adoro farmi scorrere l’acqua sulla nuca sotto la doccia, starei delle ore così; se quest’acqua potesse lavare anche  questi pensieri, questi ricordi così neri, così bui, così tristi...
Rimango ancora un po’, sto troppo bene qui.
Durante la salita udimmo la voce di uno degli assistenti:
«Tutto bene? Ci siete tutti?»
E in coro rispondemmo tutti sì, e continuammo a salire. Davanti a me quattro o cinque ragazzi più grandi, d’un tratto, si fermarono, si girarono verso di me e uno di loro mi disse:
«Senti, vuoi venire con noi? Conosciamo una scorciatoia, vedrai che saremo su prima di loro.»
Li guardai negli occhi: conoscevo bene quell’espressione! Ebbi un presentimento, ma avevo sempre in me la speranza che prima o poi le cose cambiassero, che mi accettassero davvero, che diventassi uno di loro e, quindi, accolsi la proposta e, con voce stridula, risposi:
« Sì, va bene...»
Dalle occhiate che si erano scambiate avrei dovuto subito ripensarci, ma non  ne ebbi il tempo: mi trascinarono con loro e abbandonammo il gruppo. Nessuno sembrò accorgersi della nostra deviazione. Presero un altro sentiero che sembrava abbastanza accessibile e non troppo faticoso, ma dopo un po’ mi accorsi che  si inoltrava sempre più verso il pendio della montagna; a mano a mano che andavamo avanti scorgevo il dirupo e gli scogli di sotto. Cominciavo ad avere paura, molta paura, ma non potevo dirlo agli altri: non me lo avrebbero perdonato. Quindi cercavo di non guardare in basso e continuavo a salire, dietro di loro. E fu in quel momento, forse una distrazione, forse la paura, inciampai, non feci in tempo ad aggrapparmi a nulla, rotolai per qualche metro e finii nel vuoto! In un disperato, ultimo tentativo di frenare la mia caduta riuscii ad aggrapparmi a qualcosa e mi fermai. Non osavo guardare giù, ma percepivo la sensazione del vuoto, le mie gambe penzolavano. Avevo le mani bagnate, pensavo fosse il sudore, mi colava lungo le braccia; quando, tuttavia, guardai a cosa ero aggrappato mi resi conto che non era sudore ma sangue: avevo afferrato l’unica cosa che c’era, un cespuglio spinoso. Stringevo quei rami così forte che le spine mi erano penetrate profondamente nella carne ma non sentivo il dolore. L’unica cosa che riuscivo ad avvertire era l’orrore di trovarmi in quel punto; sentivo le onde che si infrangevano sugli scogli sotto di me. Guardai giù, era altissimo. Ero spacciato.
«Aiutooooooo!»
Gridai con quanto fiato avevo in gola:
«Aiutoooooo!»
Vidi un paio di teste affacciarsi e una voce...
«Ehi, scemo! Che ci fai lì? Ciaooooo!!!!»
E poi sparirono sul crinale.
Stentavo a crederci, mi lasciavano lì! Non mi capacitavo del fatto che non si rendessero conto della gravità della situazione: erano più grandi di me, ma forse scherzavano... Come al solito.
 “Sono lì che si nascondono e tra un pò mi tireranno su...”  mi dissi.
Non fu così: passarono i minuti. Niente, piangevo, gridavo. Niente. Mi accorsi che stavo per perdere una scarpa, guardai giù e la feci cadere. Ci mise parecchio a toccare l’acqua. Ero paralizzato dalla paura: “e se il ramo che mi sostiene si spezza? E se nessuno mi trova?”
«Mon Dieu aide moi! Je veux pas mourir!»
«Je t’en prie!»
«Mon Dieu, mon Dieu»
Supplicavo il signore, lo supplicavo nella lingua che più mi era familiare; ero veramente disperato. Non so quanto tempo rimasi lì appeso, sicuramente più di due ore. In quel lasso di tempo mille pensieri attraversarono la mia mente. Su tutti quello più terribile: sarei morto sfracellandomi su quegli scogli!
Finalmente udii delle urla, stavano chiamando me.
«Sono quiiiiiiiiiiiiii, sono quiiiiiiiiiii!»
Altre grida, sempre più vicine: mi avevano trovato! Vidi l’assistente, proprio lui, “la cosa”. Mi tirò fuori. Ero salvo!
Solo allora cominciai a sentire il dolore alle mani, un dolore lancinante, e lo stupore fu immenso quando, invece di sentirmi dire che erano tutti contenti di avermi trovato e salvato da morte certa, mi arrivò un ceffone sul viso così forte che caddi per terra:
«Così impari ad allontanarti dal gruppo, sai i guai che avremmo passato per causa tua? Deficiente!»
Non ero stato sorpreso a rubare, o a combinare chissà quale disastro; fosse stato così mi sarei meritato quello schiaffo, ma ero solo un bambino impaurito che aveva rischiato la vita. Un bambino diverso dagli altri perché nato e cresciuto all’estero.
Perché allora tutto ciò, perché?
Perché nessuno ha pensato in quel momento di abbracciarmi teneramente per un secondo? Trascorsi una settimana in infermeria, una settimana tranquilla, finalmente lontano dai miei compagni. Ma quante volte sognai quel momento: veri e propri incubi nei quali le mie mani mollavano la presa e cadevo nel vuoto.
Mi svegliavo con un urlo, e questo interrompeva il mio volo.






10

E’ tempo di uscire dalla doccia: Alessandro mi aspetta e gli ho promesso di presentarmi a lui tutto pulito! Lo ritrovo svenuto, ha cercato ancora di liberarsi, le sue caviglie sono lacere e sanguinanti.
«E’ ora di svegliarsi, poltrone!»
Lo schiaffeggio violentemente sulla nuca...
«Ciao Alessandro, ti ho fatto aspettare parecchio, lo so, ma eccomi qui»
Ci impiega un po’ a riaversi, poi mi guarda con odio; io gli sorrido e mi accomodo sulla sedia che avevo lasciato davanti a lui. Cerca disperatamente di seguire tutti i miei movimenti; a pancia in giù e completamente nudo mi fa pensare ad un verme che striscia. Accendo una sigaretta. Che sapore intenso ha la prima boccata! La nuvola di fumo lo raggiunge in viso provocandogli alcuni colpi di tosse.  
«Ti piace il miele Alessandro? Vedi: qui ne ho un barattolo pieno. E questo affare lo conosci? Sai cosa ho tra le mani? Si chiama speculum, serve ai ginecologi quando devono fare una visita accurata; allarga la vagina, o anche l’ano... almeno credo. Nel tuo caso servirà a quello!»
Scoppio in una risata isterica; se potesse urlare penso che mi romperebbe i timpani. Invece può fare ben poco: si contorce, sbatte la testa sul tavolo d’acciaio, cerca di slegarsi.... Fatica sprecata! Lo schiaffeggio ancora.
«Ascoltami, non ho finito. Se ti calmi un attimo e guardi sullo  scaffale alla tua destra noterai una scatolina.
Lo vedi, laggiù,  quell’ oggetto  nero? Mentre eri solo qui nella stanza non sentivi degli strani movimenti là dentro? Non ti sei chiesto cosa fosse? Ho catturato un ratto un po’ di tempo fa, non l’ho ucciso: sapevo che mi sarebbe tornato utile. Non mangia da giorni; sarà affamato, non credi?»
Continua a contorcersi e a mugugnare. Forse ha capito. Nel frattempo ho raggiunto l’armadietto; anche in questo, come in quelli nelle altre stanze, ci sono tre scomparti. Nel primo ho riposto gli antidolorifici di ogni sorta: la morfina e tutti gli analgesici derivanti dall’oppio e quindi dalla lavorazione del papavero. Settimane a fare ricerche e studi sulla terapia del dolore, so tutto o quasi adesso. Nel secondo scomparto ci sono invece tutti i sonniferi, sedativi e psicofarmaci immaginabili: Tavor, Xanax, Valium, En, Lexotan... e tanti altri. Ma quello che mi serve ora è nel terzo divisorio: i veleni paralizzanti. Feci anche molte ricerche sulla paralisi muscolare parziale o totale. Fui sorpreso nello scoprire che uno dei più potenti di questi veleni viene ottenuto dal pesce palla che vive in Giappone: la Tetrodottosina. Il mio stupore fu ancora più grande, però, quando scoprii un’altra sostanza, una polvere biancastra, simile al borotalco. Pare che potenti stregoni vudù di Haiti, gli Hungan, soffiassero, e probabilmente soffiano ancora oggi, questa polvere detta anche polvere di zombificazione , sul viso delle vittime designate. Mi è costato parecchio procurarmela, tempo e denaro. Beh... è ora di provare se funziona!
Apro il contenitore e ne verso un po’ in una piccola cannuccia; non rischio nulla con la mascherina.
Mi avvicino ad Alessandro mentre lui continua a dimenarsi.
«Ora basta, mi hai stufato!»
Faccio un respiro profondo e gli soffio tutta la polverina bianca sul viso. Con l’affanno che ha in questo momento la inalerà in un attimo.
«Respira, respira bene, questo dovrebbe paralizzarti per un po’. Rimarrai comunque cosciente: devi poter sapere tutto quello che ti farò.»
Incredibile, l’effetto è quasi istantaneo, non si agita già più; tra un paio di minuti sarà completamente immobile, ma non insensibile al dolore, che, immagino, la paura contribuirà ad amplificare. Bene!
Ecco, ora è paralizzato, posso iniziare. Mi infilo un paio di guanti in lattice e prendo una bottiglietta in un cassetto dell’armadio.
«Alessandro, ascolta bene: ora lubrificherò il tuo orifizio con dell’olio profumato. Sentirai quanto è buono questo odore. Sto introducendo lo speculum e comincio ad allargare, ad allargare, ancora e ancora... Ecco, mi sembra abbastanza. Adesso il miele…
Con un clistere precedentemente preparato vado a metterti un bel po’ di questo dolce nettare all’interno, una discreta quantità…»
Fatto ciò mi alzo e vado verso lo scaffale, prendo la scatolina nera e la porgo davanti alla sua faccia; ha gli occhi sbarrati, ma nemmeno le palpebre si muovono! Dopo aver indossato guanti molto spessi, afferro la bestiola che cerca di mordermi:
«Guarda Alessandro, guarda quanto è carino»
Tengo il ratto nella mano destra e lo porto davanti al suo viso. La paralisi totale non ferma le copiose lacrime che gli bagnano gli occhi.
«Ora te lo infilo dentro; vorrà uscire ma troverà la porta chiusa, e mangerà, nel tentativo di aprirsi un varco. Non so se ci riuscirà! Addio Alessandro!»
L’animale si dibatte e squittisce; l’apertura è abbastanza grande ma nell’introdurlo dovrò prestare la dovuta attenzione quando toglierò lo speculum... L’operazione riesce al primo tentativo. E’ stato più facile di quanto pensassi: attirato dal miele è entrato e sta già mangiando; non so quanto tempo vivrà senza ossigeno lì, ma credo abbastanza, sì abbastanza. Ora devo uscire. Tornerò più tardi. Penso che andrò a riposarmi un po’, c’è ancora così tanto da fare!
Mi giro e mi rigiro nel letto, tolgo il cuscino, poi lo riprendo. Inutile: il sonno tarda a venire. Eppure sono così stanco!
Sarà l’eccitazione, forse il pensiero di tutto ciò che ho fatto e di quello che mi resta da fare. Chiudo gli occhi e cerco di non pensare. Non pensare al presente non mi è troppo difficile, ma il passato... quello no, non riesco proprio.
E in una specie di torpore, tra la veglia e il sonno, mi tornano in mente quei giorni, in quel collegio, in quell’inferno.



11

Era estate. Ricordo un caldo torrido, non si respirava e, malgrado avessimo il mare a due passi, in spiaggia non potevamo andarci, a meno che non lo decidessero gli assistenti. L’unico modo, dunque, per non soffrire troppo era fare meno sforzi possibili, trovare un posto ombrato e sperare che anche a loro venisse voglia di fare un bagno.
Quel pomeriggio mi ero seduto sotto un enorme pino nel cortile del collegio, sudavo, c’era anche molta umidità; tolsi la maglietta e rimasi a torso nudo. Così mi addormentai e qualcuno ne approfittò. Non ho idea di quanto tempo trascorse; ad un tratto fui svegliato dal dolore, come se fossi stato punto da tanti aghi nello stesso istante, ovunque sul mio corpo. Tentai di muovere le mani, non potevo: non riuscivo a sollevare le braccia. Queste punture, e poi il solletico, mi trasmettevano la sensazione di qualcosa che  mi camminava addosso. Misi a fuoco e vidi: decine e decine di formiche rosse, piccoline, ma molto voraci, cattive. Ne avevo ovunque e mi mordevano!
Malgrado i miei sforzi, non riuscivo a liberarmi: ero stato legato, le mie piccole ed esili braccia erano avvolte intorno al tronco dell’albero su cui mi ero appoggiato. Poi, mentre le bestiole continuavano a mordermi, sentii delle risate, dietro di me, molto vicino. Ancora una volta ero vittima degli scherzi stupidi dei miei compagni.
Durò per quasi mezz’ora; poi uno di loro deve aver tagliato il filo che mi legava e fui liberato da quella terribile tortura. Mi liberai alla svelta delle formiche che avevo addosso e, con l’angoscia che mi aveva fatto perdere il controllo, roteavo le braccia alla rinfusa sperando di cacciarle tutte. Li vidi scappare, sapevo chi erano. Cosa potevo fare, tuttavia?



12

Un suono acuto rimbomba in tutta la casa: è la porta. Qualcuno sta suonando. Non sapevo neppure che il campanello funzionasse. Un brivido percorre tutto il mio corpo.  Insistono, devo andare ad aprire! Chi può essere a quest’ora? Sarà Lei? Forse qualcuno che si è perso? Mi hanno scoperto, forse è la polizia! Niente paranoie, nessuno sa che sono qui. E la polizia non suonerebbe di certo....! Ma no, sarà certamente Lei!
«Va bene, va bene, arrivo!»





 

 

 

 

 

Terza stanza: MAURIZIO




































13

L’impatto è forte, le gambe mi sorreggono appena. Sì: è Lei, è arrivata finalmente! Il cuore mi batte così forte che quasi lo si sente. Faccio una fatica tremenda a mascherare il mio stato d’animo; mi guarda, mi sorride, mi dà una leggera spinta sulla spalla ed entra.
«Ciao M., non sei contento di rivedermi? È stata una faticaccia trovarti! Bella casa, un po’ isolata, ma è quello che volevi no?»
La psicologa in persona! Bella, come sempre, elegante e femminile, col suo profumo sensuale e inconfondibile. Entra ancheggiando. Ha solo un grosso difetto, il peggiore secondo me per una donna: non smette di parlare, parlare, parlare...
«Allora M., non mi dici nulla? Non sei cambiato affatto, anzi sì, in meglio: non hai certo perso l’ascendente su di me. Dai, dimmi che sei contento di vedermi; poi, se vuoi, ti spiego anche come ho fatto a trovarti. Ti sei allenato in palestra? Ti vedo più tonico, più in forma; dai vieni a sederti vicino a me, ne avrai di cose da dirmi.»
Un fiume di parole in un solo attimo. Come farà a pensare cento cose al secondo? Mi fa scoppiare la testa! Ma il mio corpo ha già reagito alla sua sensualità, è troppo bella. Un vestitino leggero le scende fino al ginocchio, color verde acqua, scarpe bianche con tacco molto alto, adatte ai suoi magnifici piedi. Non ho mai fatto molto caso ai piedi delle donne, ma i suoi li ho notati subito, forse la prima cosa a cui feci caso quando la incontrai nel suo studio: piccoli, affusolati, con le dita perfette, cinque magnifici cuscinetti assolutamente proporzionati, il collo non troppo alto che culmina in una caviglia sottilissima. Decisamente belli i suoi piedi, come tutto il resto.
«Ciao Sonia, dire che sono molto sorpreso di vederti è inutile, lo hai  capito. Che ci fai qui?»
Lei in piedi vicino la porta mi guarda ripetutamente, con uno sguardo famelico. Poi fa due passi e si siede sul sofà posto a tre metri sulla destra dell’ingresso.
«Capisco che tu sia sorpreso M., ma rilassati, vieni qui, sono arrivata da due minuti e già ti desidero. Con te è sempre stato così, fin dalla prima volta, e ricordo anche che tu non ci mettevi così tanto a saltarmi addosso!»
Parlandomi ha volontariamente alzato il vestito, accavallando le gambe. E’ un vero spettacolo, ma devo essere forte, devo resisterle.
«Voglio che tu te ne vada Sonia, subito!»
Non è stupita dalle mie parole, abbozza un sorriso e continua a squadrarmi con occhi voraci.
«Non me ne andrò. A meno che tu mi sbatta fuori con la forza, non me ne andrò! Non è stato facile trovarti, ci avevo quasi rinunciato; non posso credere che tu non abbia voglia di scoprire come ho fatto ad arrivare qui.
Pensaci: se ci sono riuscita io potranno farlo anche altri, magari ancora più in gamba!»
Ora il mio viso è teso al massimo, mi avvicino a lei, le prendo il mento stringendolo un po’ e porto la mia bocca ad un palmo dalla sua, alzando la voce...
«E chi ti dice che qualcuno mi sta cercando? Sono qui perché avevo voglia di stare solo per un po’. Non volevo vedere nessuno, nessuno hai capito?»
Le mollo il mento con forza facendole scuotere la testa, abbastanza forte da scioglierle i capelli raccolti.
«Mmmmmmhhhh... per un attimo ho creduto che tu volessi baciarmi M. Va beh, tanto stiamo solo rimandando! Facciamo così: io ora me ne vado. Ho preso una camera in un motel nelle vicinanze; lo so che non sopporti le sorprese ma ti prometto di tornare domani.
Sono sparite delle persone, ne parlano tutti i giornali, i poliziotti brancolano nel buio e mi hanno chiesto una mano poiché ogni tanto, come sai, lavoro anche per loro: studio del profilo e del  comportamento umano. E’ il mio campo, ricordi? Non a caso ho contribuito all’arresto di un paio dei più feroci serial killer in Italia. Ci vediamo domani tesoro!»
Mi saluta facendomi un cenno con la mano ed esce ancheggiando più di prima. Resto in preda ai miei confusi stati d’animo: un misto di eccitazione e rabbia. Il suo intento era controllarmi o avvisarmi? Cosa sa? 












14

Le sue parole mi hanno fatto gelare il sangue… neanche la vedo richiudere la porta e allontanarsi verso la sua macchina. Mentre cerco di concentrarmi e di pensare cosa fare, mi ritrovo davanti alla terza porta.
Entro. Maurizio è sveglio. Vedo parecchio sangue ai piedi del tavolo dove è sdraiato.
«Guarda cosa ti sei combinato ai polsi e alle caviglie! Sanguini parecchio! Devi aver fatto di tutto per liberarti, vero?  Lo so, lo so, vorresti dirmi tante cose, ma non ho voglia di ascoltarti, non ora...»
Se non la smette di contorcersi morirà dissanguato: devo assolutamente calmarlo.
«Tranquillo Maurizio, è solo un calmante: rimarrai sveglio ma non ti agiterai più.»
Ecco, ora smetterà di dimenarsi per un po’; lo guardo in silenzio, un vero capolavoro! Il suo corpo completamente nudo sul tavolo di acciaio e dal collo al pube interamente ricoperto di disegni, tutti perfettamente a forma di puzzle. Ci ho messo ore, ma sono soddisfatto. Un puzzle di 14 pezzi che ho intenzione di ritagliare, non adesso: la visita di Sonia mi ha reso nervoso, devo rilassarmi. Forse è lei l’unica persona con cui mi sono completamente aperto, l’unica a cui ho raccontato cose indicibili. Un giorno mi convinse a provare l’ipnosi: l’ultima cosa che vidi fu Sonia con il viso concentrato. Udivo il tono calmo della sua voce e ricordo lo strano torpore in cui caddi. Sentivo caldo e mi abbandonai totalmente. Quando riaprii gli occhi la ritrovai con un’aria sconvolta e addolorata: anche lei adesso conosceva le innumerevoli torture subite da me negli anni del collegio.
E’ stata brava: forse in quel momento ne avevo davvero bisogno! Non ho più voluto, nel periodo in cui ci frequentavamo, che mi facesse altre sedute di ipnosi; in certi  momenti, tuttavia, spesso dopo ore di sesso sfrenato, riusciva a cavarmi fuori cose che non avrei mai detto a nessuno. Sa tutto o quasi della mia infanzia in collegio, della mia situazione familiare, lavorativa e tante altre cose di me.
«Ecco, ora sei più tranquillo vero Maurizio? Ma stai piangendo? No, ti prego, un tipo grande e grosso come te! Comunque non temere, non ti faccio nulla, non subito. Ci vediamo più tardi.»















15

Lo lascio sorridendogli al pensiero di quello che l’aspetta. Vorrei dormire un po’, non ricordo più da quanto non dormo almeno quattro ore di fila! Mi porto dietro l’insonnia da anni, da quel periodo, in quel collegio.
Nottate in bianco trascorse in quell’immenso stanzone adibito a dormitorio. I nostri lettini erano divisi solo da piccoli box in legno, uno spazio di tre o quattro metri al massimo, un letto, un comodino e un armadietto. Una semplice tendina fungeva da porta. Mentre eravamo nei nostri letti, nel silenzio totale, due cose si distinguevano chiaramente: il rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli sottostanti il fabbricato, e i passi degli assistenti che camminavano nei corridoi del dormitorio. Adoravo il rumore del mare; temevo invece il rumore di quei passi e speravo non si avvicinassero al mio box. Ogni tanto, però, quegli stessi passi si fermavano, si percepiva bene lo scorrere degli anelli di una tendina che si apriva e poi si richiudeva… Un bambino quella notte aveva compagnia!
Quante notti passate a vegliare, quante notti con la paura di quella visita! Tutti noi conoscevamo quello che succedeva lì dentro, ma non ne parlavamo mai… Troppa la vergogna di chi lo aveva subito! E in una specie di tacito accordo le nostre giornate trascorrevano una dopo l’altra. Sono stato fortunato, uno dei pochi credo: non è mai accaduto a me. Ricordo solo che una notte la mia tendina si aprì…
Tremavo come una foglia, avevo dieci anni. Entrò un assistente, quello che temevo di più, “la cosa”, chiuse la tendina e si sedette sul mio letto. Era inverno e forse questo mi aiutò, coperto com’ero da un grosso pigiama e due pesanti coperte. Le tirai fino a sotto il mento e mi irrigidii subito quando prese ad accarezzarmi la fronte.
Non avevano nulla di affettuoso quelle carezze! Mi parlava a voce bassa proferendo cose senza senso; poi le sue carezze cominciarono a farsi più insistenti, ma proprio in quel momento si udì un urlo che squarciò il silenzio nel dormitorio. Lui si alzò di scatto e se ne andò. Seppi poi che un bambino aveva avuto un incubo quella notte;
l’assistente non tornò ed io rimasi sveglio fino al mattino, e così per molte altre notti.



16

Ora vorrei tanto poter dormire un po’ ma è sempre più difficile, soprattutto da quando ho rivisto Sonia. Il pensiero di lei mi procura un’agitazione indescrivibile. Per l’ennesima volta un buon sonnifero mi aiuterà.




17

Di nuovo quel campanello, quanto ho dormito? Possibile che lei sia già qui? Intravedo la luce tra i fori delle tapparelle: è giorno inoltrato.
E’ lei di sicuro. Faccio una fatica tremenda ad alzarmi e vado ad aprire.
«Buongiorno M., ti ho svegliato? Che faccia che hai, ma ti sei visto? Dai, fammi entrare che ti preparo la colazione!»
«Sonia, pretendo che tu stia zitta almeno per la prossima mezz’ora. Fai quello che vuoi, vai in cucina ma stai zitta, va bene?»
«Va bene, sto zitta, parleremo dopo.»
Si muove in questa casa come se la conoscesse da sempre; questa donna non smette mai di stupirmi. Una doccia fredda, questo mi ci vuole! Oggi è ancor più bella di ieri.
L’acqua gelida mi sveglia completamente in un attimo, ma nemmeno il forte getto riesce a coprire il rumore che viene dalla cucina: pentole, vetro, posate, sento cadere di tutto. Ma che diavolo sta combinando? Mi infilo velocemente l’accappatoio, esco dal bagno e vado in cucina.
«Mi dici che cosa stai facendo?»
«Posso parlare?»
«Non prendermi in giro Sonia, sentivo un baccano tremendo. Cosa combini?»
«Non capisco perché sei venuto a rintanarti quaggiù e come tu possa vivere in questo casino. Non trovavo nulla: un pentolino per scaldare del latte, ammesso che ci sia, una tazza, assolutamente nulla.»
«Solo caffè, Sonia, solo caffè, e il necessario è lì in bella vista»
«Ah va bene, solo caffè, d’accordo»
Sembra ricordarsi del mio bisogno di quiete assoluta appena sveglio. Mi siedo e la guardo fare; non proferisce parola, lanciandomi sorrisini. Trascorrono dieci minuti in un totale silenzio, spezzato solo dal rumore del caffè che sale.
«Ecco, spero sia di tuo gusto»
Mi porge la tazzina e si siede di fronte a me.
«Ok parliamo. Innanzitutto voglio sapere come hai fatto a trovarmi; ti prego di essere chiara, sincera e soprattutto sintetica!»
«Mmmmhhhh, da dove cominciare? So molte cose di te M.: qualche volta sei riuscito a confidarti, e quando lo hai fatto sei sempre stato molto preciso e attento nei particolari. A me non sfugge nulla e annoto tutto…. Deformazione professionale? Chiamala come vuoi.
Una volta mi descrivesti la tua casa ideale, quella dove avresti voluto vivere per sempre: isolata ,  con il tetto in tegole rosse, un enorme salice piangente a fare ombra al portone d’ingresso e alla veranda, rigorosamente in legno di ciliegio. Un vialetto all’entrata, cinto da entrambi i lati da barriere di circa un metro anch’esse in legno e al di là di queste un prato fiorito, dove spiccano rose di ogni qualità. Ti ho cercato e non sapevo dove trovarti. Credimi: è per puro caso che sono qui. Semplicemente passavo e ho visto questa casa: è stato come vederla di nuovo. Come vedere una foto! La conoscevo già, capisci? Tutto qui.»
«Qualcun altro sa che sei qui? Non mentirmi, ti prego.»
«No, nessuno. Puoi fidarti.»
«Allora adesso vuoi dirmi perché mi cercavi, cosa vuoi?»
«Non voglio nulla, ho solo il sospetto che tu c’entri in qualche modo con queste sparizioni... Anzi ne sono sicura!»
«Spiegati meglio Sonia, cosa te lo fa supporre?»
«Sette persone, sparite tutte nel giro di una settimana, cioè sette giorni; di nuovo questo sette! Gli inquirenti si chiedono ancora perché in casa di ognuna di queste persone il calendario fosse stato rimesso al mese di luglio, quando invece siamo in agosto: luglio è il settimo mese dell’anno. Il numero sette M., la tua fissazione: mi parlasti anche di questo un giorno.»
Rimango a fissarla a lungo: se solo sapesse! Ma la cosa più curiosa è che dei due sono io quello più a disagio, mentre lei mostra una calma serafica, una serenità sconvolgente. Mi chiedo se è la troppa sicurezza di sé o semplicemente incoscienza.
«Sei rimasto senza parole? Oh sì! So bene che il particolare dei calendari non è mai stato divulgato dagli inquirenti ma, come ti dicevo ieri,  tu sai che ogni tanto collaboro con loro.»
Mi sorride sbattendo le lunghe ciglia ripetutamente, poi il suo viso torna serio l’attimo dopo.
«Non avevi il numero sette su ognuno dei tuoi capi d’abbigliamento per tutti gli anni in cui sei stato in collegio? Un numero che ti perseguita da sempre, nel bene e nel male, come due anni fa, quando, in quell’incidente automobilistico, rischiasti di lasciarci le penne. Ho letto il verbale della stradale di quel giorno, il sette luglio alle sette di sera del 2007. Sbaglio? E infine, come sai, fu proprio un sette luglio a segnare per sempre anche la mia vita!»
«Va bene Sonia, tutto ciò è possibile. Effettivamente solo tu potevi conoscere certe cose ma non me ne sono preoccupato perchè sapevo che non eri più in Italia. Ho commesso un errore. Cosa vuoi? Se i tuoi sospetti sono fondati, sei cosciente che stai correndo un enorme rischio nel venire qui da sola? Cosa mi impedirebbe di farti sparire?»
«Lo so, ma è stato più forte di me: dovevo sapere se avevo visto giusto, e me ne stai dando conferma. Non ho paura di te: conosco bene il pericolo che corro venendo qui, ma devo affrontarlo, anche perché non ti ho detto ancora tutto.»
«E cioè?»
Questa volta la guardo con cattiveria, la fronte corrugata ed ogni mio muscolo teso allo spasimo.
«Stai tranquillo M., ti ripeto che nessuno sa che sono qui e nessuno lo saprà. Quello che voglio, ed ora ti stupirò sul serio, è solo questo: qualsiasi cosa tu stia tramando, qualsiasi cosa tu stia già facendo, la voglio fare con te. Voglio condividerla con te, capisci? E ti ripeto, qualsiasi cosa!»
«Tu sei tutta matta!»
«Già, lo dicono spesso di noi psicologi, pare che a volte lo siamo persino più dei nostri pazienti!»
«Sei una professionista stimata da tutti, con una carriera avviata, una donna irreprensibile e di sani principi. Non posso credere che rinunci a tutto questo per diventare una criminale!»
«E’ perché ti conosco bene: non avresti mai compiuto una cosa simile senza avere validi motivi. Queste persone, in un modo o nell’altro, ti hanno fatto molto male,
ne sono certa. Permettimi di aiutarti, ti prego.»
La fisso a lungo; lei sostiene il mio sguardo, l’espressione piena di speranza.
«Quanto dista da qui il tuo motel?»
«Circa trenta minuti, perché?»
«Voglio che tu ci vada subito: prendi le tue cose, lascia la camera e vieni a stare qui. Accetto la tua proposta!»
Il suo viso, già luminoso, colpito dai raggi del sole che filtrano dalla finestra socchiusa, lo diventa ancor di più; le sue labbra sono semi aperte, come quelle di una bambina presa dall’ammirazione davanti ad un nuovo giocattolo.
«Naturalmente ci sono delle condizioni Sonia e, ovviamente, sei obbligata ad accettarle!»
«Tutto ciò che vuoi, tutto!»
«Il tuo compito, il più importante, sarà di tenere in vita i miei ospiti, almeno fino a quando deciderò io. Per i primi due il problema non si pone, sono andati. So che hai anche fatto studi infermieristici, giusto? Quindi non dovrebbe essere un problema per te.»
Adesso mi guarda con un’ aria molto meno sicura di prima; forse solo ora si sta rendendo conto della sua situazione. Con voce esile, quasi balbettante, continua a parlarmi.
«Li.... li....  hai uccisi?»
«Beh sì tesoro, non mi hai appena detto che eri pronta a tutto? Qualsiasi cosa, ricordi?»
«Sì.... sì.... hai ragione, scusami.»
Decisamente molto meno sicura la psicologa! Strano vederla così; in questo momento la bacerei volentieri. Senza dubbio.
«Allora dicevamo: mi starai accanto nei momenti finali di ognuno dei miei ospiti e, se serve, mi aiuterai. Tuttavia mai, assolutamente mai, potrai parlare con loro in mia assenza. Questa è un’altra delle mie condizioni, insieme a  quella di non chiedermi il perché di tutto questo. Ti basti sapere che loro non fanno parte del mondo degli uomini! Spero sia tutto chiaro, non mi piace ripetermi.»
«La mia non era esitazione, solo una forte emozione, credimi. Non te ne pentirai.»
«Va bene, vai a prendere le tue cose, e non fare scherzi.»
La guardo alzarsi, sistemarsi la gonna e poi uscire. Sta mentendo, ha avuto paura, non si aspettava tanto. Tra circa un’ora saprò se ho fatto bene a fidarmi di lei, ma credo di sì: la conosco.
Comunque è un rischio che devo correre. E  la guardo incamminarsi nel vialetto e poi salire in macchina e allontanarsi.


18

Giusto il tempo di rendermi presentabile, radermi e vestirmi! Eccola che ritorna: riconosco il rumore dell’auto. Vado ad aprirle, prima che suoni di nuovo quell’orribile campanello.
«Eccoti, hai fatto in fretta. Non hai altro? Solo quella borsa?»
«Sì, questa e la mia inseparabile ventiquattro ore.»
«Ho preparato dell’altro caffè. Ne vuoi ancora un po’?»
«Sì, grazie, ne ho bisogno! Non ho dormito per l’eccitazione.»
E’ già tutto pronto: le somministrerò un leggero sonnifero che la farà dormire per almeno un’ora; si sveglierà con un forte mal di testa e le sembrerà di aver avuto solo un colpo di sonno di qualche minuto… Tanto non porta l’orologio, e in casa non ce ne sono! Io, nel frattempo, devo assolutamente controllare il contenuto di quella sua valigetta nera.
«Ecco, tieni Sonia, mettiti comoda e riposati un po’: ci aspetta un lavoro lungo e difficile.»
Le sorrido e le porgo la tazzina.
«Hai un cellulare? Ma certo che ce l’hai, ti prego di darmelo.»
«Non ti fidi di me, vero? Mi era sembrato già molto strano che tu mi avessi lasciato andare da sola in albergo. Comunque tieni, ecco il telefono.»
Mi porge il suo cellulare cominciando a sorseggiare il caffè… E’ fatta!
«Grazie, qui non ne avrai bisogno.»
Con una forza esagerata, vista la grandezza dell’oggetto, lo lancio contro la parete mandandolo in mille pezzi. Lei non si scompone, mi fissa come suo solito e continua a bere la bevanda drogata.
«Tanto avevo deciso di comprarmene un altro, poco male.»
La sua ironia sembrava meno brillante, le sue ultime parole sono uscite a fatica; sta per fare effetto.
«Sono così stanca M., sai che è proprio comoda questa tua poltrona? Ma dimmi, quando me li farai vedere?»
«Dopo Sonia, rilassati un po’! Io intanto ho delle cose da fare.»
Ha chiuso gli occhi, è andata, ho solo un’ora da adesso. Prendo la ventiquattrore che è vicino a lei e mi siedo riponendola sulle mie gambe. La apro e la prima cosa che appare è un fascicolo abbastanza voluminoso, una copertina rossa con su una scritta:

“DISTURBO SCHIZOAFFETTIVO”uestaQqq

Lo apro ed inizio a leggere...

“Analisi di un caso difficile con una psicoterapia non volontaria da parte del paziente e strategicamente interrotta.
In questo disturbo sono presenti i sintomi della fase attiva della schizofrenia insieme ad un episodio di alterazione dell’umore. Questi devono essere preceduti o seguiti da due settimane almeno di deliri o allucinazioni senza però sintomi della sfera affettiva.
M. vive solo in un paesino vicino Viterbo, ha 47 anni, nato e cresciuto fino all’età di otto anni all’estero......”

Non ci posso credere: un intero fascicolo su di me! Pagine e pagine che parlano della mia vita privata e lavorativa.
Sono davvero stupito! Poi il mio sguardo si posa su qualcosa di molto più piccolo: sono appunti. Una specie di diario dove i nostri incontri sono tutti annotati; mi studiava ad ognuno di essi, suppongo. E brava la mia Sonia! Una pagina in particolare attira la mia attenzione.

“Oggi mi sono vista con M.; odia che lo chiami così, fin dalla prima volta quando si presentò. Mi chiamo Massimo, mi disse, ed io gli risposi che era il nome del mio ex marito e che mai più lo avrei pronunciato; ecco perché da quel momento l’avrei abbreviato solo con  M., e mi piaceva così. Alla fine ci si è abituato, anche se brontola ogni tanto. Stasera era molto strano, ha cominciato a bere, cosa che non fa mai, almeno davanti a me. Ho il sospetto che avesse anche assunto qualche droga: a un certo punto si è sentito male, ha vomitato e  delirava.
Era sul letto e pronunciava parole indicibili, piene di rabbia, e poi quei nomi. Si è calmato un po’ ma, continuando a parlare nel sonno, ha fatto il nome di sette persone. Incredibile ma, pur nel delirio, è stato di una precisione devastante: nomi, cognomi e anche le  località dove trovarli. Rintraccerò queste persone: se M. ne parla con tanta rabbia devo scoprire il perché. L’ho lasciato che dormiva, mi fa una pena.”

Continuo a leggere con avidità: diventa sempre più interessante, ma non ho molto tempo: non posso rischiare che si svegli. Sembro davvero essere l’unico suo obiettivo da un bel po’: tutto qui dentro riguarda me. Cerco ancora qualcosa  e vado avanti nelle pagine.

“Oggi ho incontrato l’ultimo: Maurizio. Solo a parlarne qui, in questo mio piccolo diario, ho una morsa allo stomaco. Ma allora è vero? Esiste l’amore a prima vista?
E’ semplicemente fantastico, bello, affascinante, intelligente!!!! Non posso credere che M. ce l’abbia a morte con un uomo così. Lo rivedo domani: sono convinta di non essergli indifferente, da come mi guardava, da come mi ha tenuto la mano quando ci siamo lasciati. Mi sento come una ragazzina, non vedo l’ora.”

Questa è davvero bella! La psicologa innamorata! Quindi li conosce tutti, e sicuramente molto più approfonditamente Maurizio. Capisco meglio allora il suo stupore e la sua paura quando le ho detto che ne avevo già fatti fuori due: forse ha pensato che lui fosse tra questi. Va bene, è ora di rimettere tutto al suo posto. Aveva la sua mano destra sulla valigetta, la ripongo esattamente com’era. Com’è bella così addormentata, così indifesa! Oggi indossa un vestitino molto leggero, colore azzurro che le sta d’incanto. Vorrei toccarla e magari...
Tempo scaduto, inizia a svegliarsi!
«Sonia!» «Sonia!»
«Sì...sì... perdonami M., credo di essermi addormentata un po’. Cavolo, che mal di testa!»
«Ti stavo parlando, non mi rispondevi, mi sono girato verso di te e ti ho visto dormire, incredibile! Mai visto qualcuno addormentarsi così velocemente.»
«Sì, lo so, raro che mi succeda, devo muovermi. Portami a vederli, ti prego. Sono tutta eccitata al pensiero.»
«Va bene, seguimi.»
Ho messo della moquette ovunque, adoro camminarci a piedi nudi! L’interno della casa non è grande, almeno quello abitabile, visto che le mie stanze hanno occupato molto spazio. L’ho resa comunque molto accogliente, con mobili in legno e in stili diversi. A dire il vero sembra un arredamento fatto da una donna; forse per questo Sonia ci si trova così bene. Dal salotto attraversiamo un piccolo corridoio che porta verso le stanze; sulla sinistra una scala a chiocciola anch’essa in legno conduce alla camera da letto al piano superiore. Un po’ più avanti c’è una porta molto spessa. Varcata quella siamo all’inferno!
«Sonia sei pronta? Ti senti bene?»
La guardo divertito; lei invece sembra terrorizzata.
«Tutto a posto caro: come ti dicevo prima, il movimento mi fa bene.»
Finge, è tesa. Apro la porta, lei è dietro di me. Entriamo e richiudo. Il silenzio è totale.
«Ma non dovrebbero essere sette stanze? Ne ho contate otto!»
Mi sorprende sempre il suo spirito di osservazione...
«Tranquilla, l’ottava la uso per cambiarmi e ci tengo dentro il materiale che mi serve. Andiamo a toglierci questi vestiti.»
Poco dopo varchiamo la soglia dell’ottava stanza.
«Nell’armadietto dovrebbero esserci altri camici, guanti, mascherine e dei copri-scarpa in plastica. Cambiati.»
Mi giro e le do le spalle.
«Beh mi hai già vista nuda M., non mi vergogno di te. Puoi anche guardare!»
In un attimo lascia cadere il suo vestito, i due seni perfetti ed i capezzoli turgidi farebbero risvegliare un morto, per non parlare del resto. Il perizoma, quasi invisibile, lascia intravedere il pube rasato ma non del tutto; la guardo mentre, con fare molto lento, sfila via anche quello.
«Se hai finito con lo spogliarello possiamo procedere!»
«Non sei altro che uno stronzo! Il peggiore!»
Cosa vuole fare? Sedurmi ancora? E’ innamorata di Maurizio? Penso di essere anche uno scemo, ma non è il momento, non ora. Continuo a guardarla mentre indossa il camice e il resto; non credo che le resisterò ancora a lungo.
«Sono pronta!»
Dall’ottava porta attraversiamo il lungo corridoio fino ad arrivare alla terza. Voglio proprio vedere la sua faccia quando si ritroverà davanti il suo spasimante!
«Ecco Sonia, siamo arrivati. Come ti ho detto, è inutile farti vedere le prime due stanze.»
Apro la porta, le faccio strada ed entra. Maurizio dorme; cerco di osservare il volto di lei, non traspare nulla. Si avvicina al corpo nudo disteso sul tavolo, e lo contempla a lungo.
«E’ un uomo bellissimo, curato ed è in una forma perfetta nonostante, credo, abbia più di  quarant’anni. Ma non vedo ecchimosi, tagli o abrasioni, nient’ altro che disegni sul petto. Cosa hai intenzione di fargli?»
«Ecco vedi, l’idea è questa: ritagliare quei disegni sul suo petto. Dovrà essere un lavoro molto preciso, ma ho ciò che mi serve. Non li taglierò tutti, solo la metà.»
«Già, sette mi pare no? Ne ho contati quattordici.»
«Sbaglio o denoto una leggera vena di sarcasmo, tesoro?»
L’ammonisco...
«Non interrompermi, Sonia: l’idea è di far ricomporre allo stesso Maurizio il puzzle con pezzi della sua stessa carne. Avrà naturalmente un grande specchio posto sopra di lui, ma anche un tempo limite per farlo trascorso il quale, se non avrà terminato, morirà! Anche se detto tra noi...»
Mi avvicino a lei e porto la mia bocca accanto al suo orecchio, sussurrando:
«Morirà comunque!»
«Sei tremendo! Davvero degno del miglior Tarantino, tesoro.»
«Sono contento che apprezzi. Ora, se vuoi, possiamo passare alla quarta, dove penso stia succedendo qualcosa, anche se noi due non dovremo fare molto. Poi capirai.»
Non mi convince affatto, sta fingendo. Ma la terrò sempre d’occhio, non sono uno stupido! Uscendo dalla stanza mi sorride e mi bacia sulla guancia. Che voglia di stringerla! Il suo profumo mi fa girare la testa: sta usando la sua arma migliore.










Quarta stanza: FRANCESCO

































19

Appena varcata la soglia della quarta stanza con la coda dell’occhio vedo Sonia passarsi il polso velocemente sul viso: una lacrima al pensiero di ciò che aspetta il suo amato o il caldo infernale di questa torrida estate? Chissà... E’ brava comunque a mascherare molto bene i suoi stati d’animo: non ha fatto nulla che potesse far trapelare un disagio. Fantastica! Si avvicina al tavolo di metallo con aria pensierosa.
«Anche questo, a prima vista, non presenta nulla di evidente sul suo corpo M., almeno non mi sembra.»
Ho provveduto ad addormentarli tutti prima di farli vedere a Sonia altrimenti avrebbero continuato a dimenarsi e lei avrebbe avuto difficoltà a guardarli bene, soprattutto il nostro Francesco.
«Avvicinati, guarda meglio.»
«Ecco, ora vedo: è ricoperto da pustole. Ne ha ovunque cavolo, persino sui genitali!!! Che cosa gli hai iniettato?»
«Guarda meglio, avvicinati ancora un pò.»
«Per la miseria! Ma... quelle pustole... SI MUOVONO! Che cosa sono? Cosa si agita sotto la sua pelle M.?»
«Credo di averti già parlato della mia passione per il piccolo mondo che condivide con noi questo pianeta: gli insetti.»
«Oh sì che lo hai fatto, e più di una volta. E ti ho sempre pregato di smettere, visto la mia totale repulsione per loro!»
«Ebbene Sonia un giorno guardavo un documentario che parlava appunto dei miei piccolissimi amici, in particolare della coccinella. Sai quella magnifica bestiola che si dice porti fortuna?»
«Conosco le coccinelle! Vai avanti.»
«Questo bellissimo e inoffensivo insetto è vittima di uno tra i parassiti più terribili, una specie di zanzara. Questa le si avvicina senza che se ne accorga, le infila il suo organo riproduttivo tra le ali e il suo addome,  depone il suo uovo, poi se ne va. Tutto accade molto in fretta. La coccinella continua per la sua strada senza essersi accorta di niente, ignorando che in essa sta crescendo una larva che la divorerà un pochino alla volta fino ad ucciderla!»
«Vuoi dire che dentro di lui ci sono....»
«Sì Sonia, dei parassiti. Ma di ben altra sorta: dopo aver visto quel documentario feci delle ricerche più approfondite. Trovai quello che cercavo in una piccola regione del Brasile.»
«Insomma M. mi vuoi dire cos’è?»
«Uova di ragno tesoro; ne ha ovunque nel corpo, e penso stiano schiudendosi tutte. Se lo stanno già mangiando!»
Il colore del suo viso e quello del suo camice bianco fanno tutt’uno: se supera questo penso sia davvero pronta per tutto il resto.
«Porca miseria! E’ orribile! Tutto avrei sopportato, ma questo proprio no. Ti prego,  usciamo di qui. I ragni davvero non ce la faccio.»
«Non preoccuparti, andiamo via subito, i miei amichetti lavoreranno per noi! Ahahaha!»
«M. ti prego, basta per oggi, sono disgustata e voglio riposarmi un po’.»
«Va bene ma ricorda il tuo compito; le stanze sono sempre aperte, non hai bisogno di nessuna chiave. Nutro tutti i miei ospiti con delle flebo, tu dovrai provvedere a cambiarle. Sono anche tutti imbavagliati; assicurati sempre che possano comunque respirare: non voglio che crepino anzi tempo! Puoi entrare tranquillamente in tutte le altre, non avrai sorprese, non ho ancora cominciato con loro.»
«Vuoi mangiare qualcosa, Sonia?»
«Ma ti va di scherzare? Mi sa che dopo tutto questo non toccherò cibo per una settimana!»




20

Ho dato a lei la camera da letto: meglio non avere coinvolgimenti per ora, devo rimanere lucido. Era davvero sconvolta dopo aver lasciato Francesco, ma sono convinto che tutto nasca semplicemente da questa sua avversione verso gli insetti, soprattutto i ragni. Sopporterà molto meglio tutto il resto. La sua freddezza al cospetto di Maurizio però mi ha stupito: la psicologa è davvero forte. Ho deciso: lui me lo lavorerò per ultimo! Voglio stare al tuo gioco, cara Sonia, perché sono convinto che nella tua testolina covi l’idea di tirarlo fuori di qui! Il divano è abbastanza confortevole, l’ho preso robusto e soffice al tempo stesso. Certo, non quanto il letto che sta di sopra, ma tanto, per quel poco che dormo mi sta anche bene. Non sento nulla, penso si sia addormentata subito dopo la doccia. Ho appena finito di pensarlo che la sua voce riecheggia in tutta la casa.
«M. ci sei?»
«Sì, sono qui sotto.»
«Stai dormendo?»
«Beh, se ti ho risposto....»
«Vieni da me, ti prego.»
Ecco ciò che temevo: il coraggio, la sfrontatezza, la forza, l’orgoglio. Tutto annullato da cinque parole apparentemente banali dette da una splendida creatura. Come resistere? Perché resistere! Accendo una sigaretta, cerco di pensare ad altro, a tutto quello che resta da fare, ma sono sicuro che sarà inutile.
Salirò da lei; i pensieri dei momenti passati insieme, nella nostra intimità, sono la sola cosa che mi viene in mente ora.
«Vieni da me M.»
Il suono sordo dei miei passi sulla moquette delle scale e lo scricchiolio del legno l’avvertono che il suo richiamo non è stato inutile. La camera è nella penombra ma intravedo il suo corpo nudo sul letto. Mi siedo accanto a lei senza parlare: le parole ora non servono più. Le prendo il viso e la bacio, con passione, la stessa di sempre, la più sconvolgente.
«Prendimi M., prendimi come solo tu sai fare!»
Il suo odore, il suo sapore, mi piace tutto di lei, e l’attimo dopo siamo avvinghiati l’uno all’altra, così stretti che quasi ci manca il respiro. I suoi seni perfetti sembrano fatti apposta per le mie mani, li prendo prima uno e poi l’altro, facendo indurire i suoi capezzoli al massimo. I suoi gemiti sempre più frequenti, il suo respiro sempre più profondo e veloce mi fanno impazzire, e fanno crescere sempre più il mio desiderio. Le mie labbra impregnate dei suoi umori, le sue dei miei: sarà una stupenda notte.
«Oh M., sai essere così dolce, e anche così selvaggio....»
«Sarò l’uno e l’altro stanotte tesoro!»



21

I suoi capelli, colpiti dai raggi del sole e sparsi sul mio petto, sono la prima cosa che vedo appena apro gli occhi. Non mi muovo: non voglio svegliarla e sono qui ad ammirarla. Forse tutto poteva essere diverso: la nostra vita è molto simile, sotto molti aspetti. Può darsi che con lei sarei stato bene davvero, è fantastica.
«Mmmmhh.... sei sveglio?»
«Sì, sono sveglio.»
«Mi hai distrutta, non ne avevi mai abbastanza stanotte!»
«Beh, non mi è sembrato ti dispiacesse tesoro. E comunque ascoltami bene, qui inizia e qui finisce. Chiaro?»
«Va bene, come vuoi!»
Sembra rattristata dalle mie parole; si stira come una ragazzina sbadigliando, poi torna ad attaccarsi a me. Per ora va bene così, ancora un po’ di effusioni prima della cruda realtà!
«Certo che ne hai davvero tante di cicatrici e penso di conoscere la loro storia, ma quella che hai lì dietro il tallone destro non l’avevo mai vista. Ti va di dirmi come te la sei procurata?»
«Abbiamo da fare Sonia, ricordi? Comunque d’accordo, te lo voglio raccontare. Risale al periodo del collegio, avevo dieci anni.»
«Ancora in quel collegio: quante ne hai passate lì dentro! Dai, ti ascolto.»
Ci vuole poco, in un attimo davanti a me si riapre un sipario di immagini.











22

«Eravamo in autunno inoltrato; ricordo che quel giorno ci diedero il permesso di andare a fare una passeggiata da soli. Un gruppetto di dieci o quindici ragazzini, accompagnati però da un paio di ragazzi più grandi. Quindi ci incamminammo lungo la strada che dal collegio portava direttamente ad una delle due solite mete: Monte d’Argento. L’altra era Monte D’oro, dalla parte opposta. Non erano veri e propri monti, piuttosto colline direi, e da quel che ne so si chiamano così per il colore che assumono sotto i raggi del sole in vari momenti del giorno. Io non l’ho mai notato. Un percorso rettilineo di tre o quattro chilometri, su di una strada che costeggiava la spiaggia e quindi il mare. Mi rendeva molto triste la spiaggia in autunno; camminando avevo sempre lo sguardo su di essa. Ero meravigliato di come potesse essere così diversa, di come cambiasse totalmente aspetto, e tutto in così poco tempo dopo una mareggiata notturna. Quei cumuli di alghe bagnate da una schiuma verdastra, il fetore che emanavano, rami dalle forme più varie e dall’aspetto spettrale. Trovavo sempre in quei frammenti di tronchi sparsi qua e là sulla sabbia una vaga somiglianza con qualche specie di creatura orribile. Ma ancor più visibili di questi detriti, pur sempre naturali, spiccavano rifiuti di ogni sorta: bottiglie, casse, bidoni per metà sepolti nella rena, pentole, piatti e persino preservativi e fazzolettini di carta. Decisamente non mi piaceva la spiaggia in quel periodo, e non doveva piacere neanche agli altri visto che continuammo a percorrere la strada asfaltata. Dopo forse un paio di chilometri arrivammo in un punto in cui l’asfalto si allargava verso la spiaggia formando una specie di piccola piazzola del diametro di circa venti metri. Una baracca in legno e degli enormi cassoni indicavano che il posto era stato occupato dai giostrai che ogni anno stazionavano lì per il periodo estivo. Un po’ più avanti trovammo quel che restava di una giostra. Era rimasto praticamente solo lo scheletro: una enorme ruota arrugginita fissata a terra e denudata dei suoi cavallini, delle sue moto e delle sue carrozze. Nel centro gli ingranaggi erano visibili dai più piccoli ai più grandi con un lungo perno centrale che saliva in verticale per circa un metro terminando con una specie di volante d’auto, anch’esso in ferro. Tutti, in quel momento, sperammo che salendo su quella ruota e facendo girare quel volante saremmo riusciti a farla muovere.  Fui uno dei primi a montarci sopra, insieme ad altri tre o quattro. Sfortunatamente eravamo troppo piccoli, troppo deboli per far muovere quella ruota in ferro e, anche se tutti insieme tenevamo stretto quel volante e ce la mettevamo tutta, i nostri sforzi erano vani. Quando salirono i due più grandi lo spazio si era ridotto drasticamente; così buttarono giù due di noi senza tanti complimenti. Io rimasi avvinghiato al metallo con le mie manine, volevo restare su quella giostra a tutti i costi. E un momento dopo, quando i due ragazzi iniziarono a tirare con tutte le loro forze, finalmente questa cominciò a muoversi, vincendo a mano a mano la ruggine e la salsedine che avevano già bloccato il meccanismo; ora, un poco alla volta, prendeva velocità, sempre più. Sapevamo che era pericoloso quello che stavamo facendo, per via di quegli ingranaggi, proprio sotto ai nostri piedi, ma nella totale incoscienza e sprezzanti del pericolo continuammo a farla girare. E fu in quel momento, credo, che per la prima volta mi sentii uno di loro: gridavamo, ridevamo, strillavamo il nome di ognuno di noi con quanto fiato avevamo in gola, era bellissimo. Ma come tutte le cose belle durò molto poco: la ruota stava girando sempre più veloce ed io, come gli altri bambini più piccoli, avevo difficoltà a non lasciarmi sfuggire quel grosso volante in ferro arrugginito. E fu allora che cominciai a gridare di fermarsi perchè sapevo che a quella velocità, se fossi caduto, mi sarei fatto molto male; per tutta risposta continuarono a farla ruotare ancora più forte. La gioia di un momento prima si era trasformata in paura: non riuscivo più a tenere il contatto col ferro, cercavo di non perdere l’equilibrio sui piedi; già, i piedi... Ero così impegnato nel cercare di non cadere che avevo completamente dimenticato il pericolo non meno grave degli ingranaggi; e fu così che ci andai a finire dentro, con il tallone destro. Un momento prima i due ragazzi avevano deciso di smetterla e avevano parecchio rallentato la giostra. Forse per questo adesso puoi ammirare questa bella cicatrice, cara Sonia, e non una gamba senza un piede!»
«Accidenti M., è terribile, e poi? Cosa è successo dopo? Ti prego continua....»
«Quello che è successo dopo è stato ben più terribile, peggio della paura provata prima, peggio del dolore lancinante al tallone preso nella morsa di quei denti d’acciaio. Per niente preoccupati della gravità della situazione e delle mie urla di dolore mi lasciarono lì, lo fecero ridendo, e non si girarono neanche una volta ripartendo verso il collegio. In estate quel paesino era sempre pieno di gente, molti turisti, come in qualsiasi zona di mare, ma in autunno ed in inverno sembrava un deserto: pochi abitanti e noi studenti. Ero incastrato su quella ruota, da solo, stava facendo buio e tremavo. Ricordo che ogni tanto sentivo il rumore di un’auto; gridavo ma non serviva a nulla, non potevano sentirmi. Vedevo la spiaggia, la marea che saliva, e poi quel cane, un grosso cane che si aggirava in mezzo ai detriti sulla sabbia. E pensavo: “ti prego, ti prego non farlo venire qui!” Ma aveva già fiutato l’odore del sangue che usciva copiosamente dal mio piede. Si diresse verso di me. Era un grosso cane nero e ricordo benissimo i suoi occhi che la luce fievole del tramonto esaltava facendoli diventare di un rosso acceso. Non sentii nemmeno più il dolore, ero semplicemente paralizzato dalla paura. Percepivo il suo respiro sempre più vicino e non osavo guardarlo: sapevo che non era a più di dieci metri da me. Poi d’un tratto non sentii più nulla, aprii gli occhi e guardai in basso. Il cane era lì, si era accucciato e mi guardava, la sua enorme testa ciondolava a volte a destra e a volte a sinistra, come se si stesse chiedendo che cosa ci facessi lì sopra. Ci guardammo negli occhi entrambi per un bel po’, e capii che solo la razza ci differenziava, la solitudine e la sofferenza ci accomunavano. Lì finiscono i ricordi di quel giorno; penso di aver perso i sensi o di essermi addormentato.
So solo che mi risvegliai nella solita infermeria del collegio, godendo di ogni istante del lungo periodo di convalescenza.»
«Mi sento sempre molto triste quando ascolto i tuoi racconti M., e allo stesso tempo piena di rabbia per quello che ti è stato fatto.»
«Basta ora Sonia, vai a fare il tuo giro e controlla che ai nostri ospiti non manchi nulla. Non entrare nella stanza numero quattro, lì non abbiamo più niente da fare.»
«Vuoi dire quella dei ragni? Ma non avevo nessuna intenzione di entrarci, caro mio! Faccio una doccia e scendo. A dopo.»



23

Quindici minuti dopo la sento scendere le scale: è il momento che aspettavo. Mi assicuro che abbia richiuso la grossa porta che conduce alle stanze. Nel piccolo corridoio a fianco alla camera da letto c’è un armadio. Lo apro, entro e richiudo; spostando i vestiti appesi che lo riempiono e spingendo le sue pareti interne mi ritrovo in un attimo nella mia stanzetta segreta. Otto schermi, un tavolino ed una sedia, tutto in uno spazio ristrettissimo, da cui posso osservare il resto. Il mio sguardo si posa subito sullo schermo della terza stanza: Sonia è lì, non avevo dubbi. La prima regola è già stata infranta visto che sta  parlando con Maurizio. D’altro canto non dubitavo nemmeno di questo. La vedo chinarsi su di lui, tamponargli la fronte con un panno, accarezzarlo e prendergli le mani. Dopo una decina di minuti di amorevoli cure ed un bacio appassionato si alza ed esce da lì. Ora è nel corridoio, passa accanto alla numero quattro senza neanche guardarla e, accelerando il passo, entra nella quinta. A me invece interessa molto guardare ciò che è successo a Francesco; la stanza ora è infestata dai miei amichetti a otto zampe, ma devo assolutamente vedere come tutto si è svolto. Tenendo, dunque, sotto controllo la psicologa, riavvolgo il nastro numero quattro, poi il tasto play dà inizio all’orrore. Le contorsioni di quel corpo nudo non lasciano dubbi sulle atroci sofferenze che sta provando: lo stanno divorando dall’interno, le pustole che ricoprono il suo corpo diventano sempre più gonfie. Scoppiano, una dopo l’altra, e dopo spruzzi e rivoli di sangue, vengono fuori da quelle ferite decine e decine di ragnetti famelici. I minuti passano e la scena diventa sempre più terribile; vado avanti con il nastro fino al momento finale, quando gli animaletti cominciano a uscirgli dagli orifizi facciali. Addio Francesco.


















Quinta stanza: ROBERTO































24

Mi riprendo dagli ultimi istanti di estremo compiacimento e torno ad osservare ciò che sta facendo Sonia: ben diverso da quello di Maurizio il trattamento che sta riservando al povero Roberto. In un primo momento lo schiaffeggia, poi gli prende la testa e la sbatte con forza sul tavolo d’acciaio. Pugni nello stomaco e sui fianchi; lo sta davvero pestando per bene! C’è un solo modo di sapere il perché di tanto accanimento: il suo diario. In un baleno mi precipito di nuovo nella camera da letto, afferro la valigetta e ne traggo il piccolo quaderno. Ho tutto il tempo che mi ci vuole, e intanto la tengo d’occhio…

“Ho incontrato Roberto, bastardo!!!! Avrei dovuto capire subito che genere di uomo avevo davanti, viscido, sporco, inutile parvenza di essere umano! Sento ancora il suo alito puzzolente, la sua schifosa lingua intrufolarsi nella mia bocca. Non avrei mai dovuto accettare di allontanarmi in auto con lui; solo la grande curiosità mi ha spinto a farlo. Qualsiasi motivo abbia M. per avercela con lui è giustificato, lo farei volentieri fuori io stessa! Sono riuscita a sfuggirgli, maledetto bastardo! Penso che porterà per molto tempo l’impronta del mio tacco stampato sullo stinco!”

Ora capisco meglio, mio caro Roberto, non ti invidio proprio! Ahahah!!!!!! Guardo lo schermo ancora qualche istante. Sembra che Sonia si sia calmata, e per fortuna ha ancora due stanze da visitare! Ho il tempo di rimettere tutto a posto e di prepararmi a raggiungerla. Non so che darei per sapere cosa si sono detti lei e Maurizio; dovrò stare molto attento: sono convinto che qualcosa stanno tramando.
Se avessi saputo di questo loro legame avrei certamente aggiunto il sonoro alle immagini che ricevo dalle stanze. Non è difficile immaginare i loro propositi:  Sonia farà di tutto per conquistare la mia fiducia e aspetterà il momento opportuno per cercare di evadere con lui. Mi troverà pronto.
Evadere... quanta importanza ha avuto nel mio passato questa parola: per anni è stata presente nei miei pensieri. Spesso tentai di farlo, mai ci riuscii.
E una volta l’ennesimo tentativo di fuga da quel collegio fu l’inizio di un periodo di atroci sofferenze.











25

In tutti quegli anni trascorsi lì dentro fui spesso testimone di vari tentativi di fuga da parte di ragazzi di tutte le età. I più piccoli non facevano molta strada: venivano ripresi quasi subito. I più grandi, invece, riuscivano ad attraversare addirittura un paio di altri paesi, ma il risultato era uguale: venivano riacciuffati. Logicamente la punizione per chi tentava di scappare dal collegio era proporzionata all’età. Più eri grande, e maggiormente dovevi soffrire. Quella volta provai a farlo a tredici anni, l’età giusta per una punizione esemplare! Decidemmo di tentare in quattro, pianificammo il tutto per parecchio tempo. Ognuno di noi doveva pensare e proporre un piano. Dopo di che avremmo scelto il migliore dei quattro. Ricordo perfettamente ognuno di questi progetti di fuga: eravamo così eccitati, organizzavamo le nostre piccole riunioni clandestine, nei sottoscala, a notte fonda, o sotto ai letti con una piccola lampadina. Pur sapendo i rischi cui andavamo incontro, eravamo sempre più decisi ad arrivare fino in fondo. Poi, finalmente, un giorno tutti insieme sviluppammo un’ idea che ciascuno espose in una riunione appositamente organizzata. La prima fu scartata subito: consisteva nell’allontanarsi mentre ci portavano a fare la solita passeggiata quotidiana. L’appello obbligatorio che gli assistenti facevano prima e dopo ci lasciava pochissimo tempo per tentare la fuga.  La seconda ci fece discutere un bel po’: poteva funzionare ma troppi fattori avrebbero dovuto giocare a nostro favore. Si trattava di tentare la mattina, durante il breve percorso verso la scuola. Succedeva che a volte qualche ragazzino del collegio arrivasse tardi, o addirittura che non si presentasse proprio in classe. Le maestre non sempre chiamavano subito il nostro direttore per avere una giustificazione all’assenza; e se quel giorno invece lo avessero fatto? Non si sarebbe trattato di uno o due, ma di quattro ragazzi. E poi in pieno giorno, dove nascondersi? Facile trovare quattro marmocchi in giro da soli e avendo una dettagliata descrizione del loro aspetto e di quello che indossano. Fu scartata anche questa idea. Il terzo avanzò un progetto  che ci fece soltanto ridere, a tal punto che dovemmo abbandonare la nostra piccola riunione e rimandarla all’indomani. Ancora adesso sorrido al pensiero di quella assurda proposta. Ci espose il suo piano con un’ aria così seria, così sicuro di sé, e forse fu questo a procurare tanta ilarità. In pratica bisognava intrufolarsi in sacrestia e rubare due tonache ai preti; due di noi avrebbero dovuto salire sulle spalle degli altri, indossare gli abiti e uscire tranquillamente al calar del sole! Roba da matti! Il giorno dopo cercammo di non parlarne più: avremmo ricominciato a ridere. Logicamente, e purtroppo per me, fu scelto il mio piano. Avevo a lungo studiato il perimetro del collegio: l’edificio sorgeva a ridosso del mare e l’unica via possibile poteva essere il muro di cinta. Esso partiva da entrambi i lati per parecchi metri formando un enorme rettangolo per poi congiungersi con il cancello di ferro forgiato all’entrata del cortile. Avevo notato che ogni mercoledì il giardiniere che tagliava l’erba e ripuliva il giardino lasciava la sua la piccola scaletta appoggiata sul muro fino all’indomani. La prima volta pensai ad una dimenticanza, poi vidi che la cosa si ripeteva ogni mercoledì. Il caso volle che una delle lampade poste al di sopra del muro per l’illuminazione esterna fosse fulminata da un bel po’ di tempo, ragione per cui quella zona era perennemente nella penombra al calar del sole. L’idea era questa: utilizzare quella scaletta per salire su quel muro nel punto più buio, lasciarci calare dall’altra parte e il gioco era fatto. Molto semplice, abbastanza fattibile. Fummo tutti entusiasti e approvammo il progetto sicuri di riuscire a farcela. Decidemmo di tentare il mercoledì seguente, e fu la più lunga settimana di sempre per tutti e quattro. Il gran giorno arrivò. Per non attirare troppa attenzione cercammo per tutta la giornata di non stare troppo insieme; l’ora x era stata stabilita per l’una di notte, perché dormivano ormai tutti e gli assistenti smettevano di girare per il dormitorio. Persino gli stupidi scherzi e le cattiverie dei soliti bulli mi scivolarono addosso: mi limitavo a guardarli pensando che tutto oramai stava per finire, la mia permanenza lì aveva le ore contate. E il momento arrivò. Come stabilito uno dopo l’altro ci riunimmo tutti in piena notte, scendemmo con prudenza le scale che dal dormitorio conducevano all’enorme androne e quindi al portone d’ingresso del caseggiato. Non fu difficile aprirlo, fummo fuori in un attimo, ed arrivammo ai piedi del muro dove c’era la scaletta. Essendo l’ideatore del piano di fuga non potei esimermi dallo scavalcare per primo e poi lasciarmi cadere dall’altra parte. Cominciai a salire e gli altri mi seguirono; solo in quel momento, guardando in basso,  mi resi conto che era molto più alto di quanto pensassi. Visto da sopra era impressionante ma immaginai che, calandomi e tenendomi aggrappato con le mani, avrei comunque guadagnato il metro e mezzo della mia altezza e il salto sarebbe stato molto più facile.  Era importante però cercare di cadere bene; mi imposi di non pensarci troppo: l’eccessiva esitazione avrebbe scoraggiato anche gli altri. Feci un respiro profondo e, sotto l’incitamento dei miei amici, tentai. Mi ritrovai appeso a quel muro un attimo dopo; ogni tanto volgevo lo sguardo di sotto, e  sembrava altissimo. Cominciavo a sentire dolore alle dita, il cemento grezzo del muro mi scorticava la pelle delle mani, e, non potendo resistere più a lungo, chiusi gli occhi e mi lasciai andare. Il silenzio di quella notte complice della nostra bravata fu squarciato dalle mie urla. Credo di non aver mai più provato tanto dolore: ero lì sull’asfalto sottostante ripiegato su me stesso con entrambe le caviglie rotte! Ricordo che tutto girava; in un carosello di immagini vedevo ora le teste dei miei compagni che guardavano di sotto urlando, ora il lungo muro scuro, luci che si accendevano l’una dopo l’altra ad ogni piano del collegio e il cielo stellato con la sua luna piena. Il dolore era davvero insopportabile, e lo diventava ancora di più quando, nei rari momenti di lucidità, pensavo alle conseguenze. Stavano arrivando, eravamo scoperti, avrei pagato caro il mio gesto! Il primo a venire verso di me fu proprio lui, “la cosa”! Incurante del fatto che urlassi dal dolore, che gli dicessi di essermi sicuramente fratturato le caviglie, mi intimò di alzarmi. Sbuffava come un toro inferocito e, vedendo che non mi alzavo, mi afferrò per un braccio e mi trascinò fino al cancello d’entrata. Solo a quel punto, forse perché le mie grida erano davvero troppo forti, si degnò di chinarsi per poi rendersi conto che effettivamente ero messo male. Dopo avermi fatto capire bene che  sarei stato punito a dovere una volta guarito, fui portato nell’ospedale della zona. Dopo un ricovero di qualche giorno mi ritrovai nell’infermeria del collegio che oramai conoscevo molto bene, come conoscevo molto bene l’infermiera la quale, con un bel sorriso, mi disse: “ancora qui? Non ti sarai mica innamorato di me?”.
Sì che lo ero, e non poco! Passai parecchio tempo lì dentro quella volta: un piccolo paradiso all’interno di quell’inferno, con il suo angelo che emanava profumo di vaniglia.









26

Ecco: ora Sonia sta entrando nell’ultima stanza. E’ tempo di uscire di qui. Vado a prepararmi: oggi mi occupo di te, Roberto.
Metto il piede fuori dalla doccia e me la ritrovo davanti con il mio accappatoio in mano.
«Tieni, caro...»
«Grazie. Allora? Come stanno i nostri ospiti? Ancora vivi spero!»
«Sì, malconci ma vivi.»
«Bene, preparati Sonia perché oggi ci lavoriamo Roberto, nella quinta stanza.»
Noto il luccichio nei suoi occhi e le fossette che le si formano naturalmente ai lati della bocca quando abbozza un sorriso denotano una grande soddisfazione. Non vede l’ora di fargliela pagare.
«Io ora scendo a preparare il tutto, raggiungimi tra un po’.»
«Va bene, ma dimmi, il tizio nella stanza numero sei....»
«Cosa?»
«A occhio e croce avrà più di settanta anni! Non credi di aver un pochino esagerato? Non capisco, cosa può aver fatto di male quell’uomo?»
«Ricordi i nostri accordi? Non devi farmi domande su di loro! Se è qui un motivo ci sarà!»
La rabbia mi infiamma il petto; le urlo queste parole ad un palmo dal viso con una tale violenza da farla indietreggiare e cadere sul letto proprio alle sue spalle. Ha paura di me, deve essere così. Continuo a guardarla con occhi accigliati fino a quando sono fuori dalla camera.
«Raggiungimi tra un’ora!»
Il tavolo al centro della stanza di Roberto è come tutti gli altri: c’è un meccanismo che mi permette di farlo ruotare e quindi metterlo in posizione eretta. Ora è diritto davanti a me con il collo, il torace, le braccia e le caviglie legati al tavolo da grosse cinghie in cuoio. Apro l’armadietto e ne traggo una grossa bobina di filo spinato; lui mi guarda senza un gemito, quasi con curiosità. Un po’ laborioso ciò che sto per fare, ma ne varrà la pena.. ne sono certo. Fisso il capo del filo ad un anello di ferro posto sotto il tavolo, quindi comincio ad avvolgere il corpo nudo. Solo ora prova a dimenarsi, sbatte la testa più volte emettendo lamenti sempre più forti. Continuo ad avvolgerlo partendo dalle gambe; il filo lo stringe sempre più, senza che le punte gli entrino nella pelle: a questo provvederà lui stesso agitandosi. L’operazione dura più o meno quindici minuti; ora è completamente avvolto dal filo spinato, non mi rimane che assicurare l’altro capo ad una grossa manovella in ferro posta a circa un metro dal tavolo. Rivoli di sangue fuoriescono ovunque sul suo corpo, ma ha capito che deve stare fermo se non vuole soffrire di più! Prendo la sedia e mi siedo di fronte a lui.
«Vedo che ti sei calmato, hai finito di agitarti. D’altronde ti capisco: il filo di ferro con il quale ti ho avvolto ha delle punte affilatissime di quasi due centimetri. A questo punto, se sei più tranquillo, possiamo parlare un po’, o meglio, io ti parlerò, tu devi solo ascoltare!»
Quanta rabbia nei suoi occhi; ad ogni suo movimento il sangue esce copioso dalle innumerevoli  ferite. Al di là del dolore e della paura penso che questa sua impossibilità di parlare sia la cosa che più lo tormenta: deve essere terribile non poter chiedere il perché, o più semplicemente un atto di pietà da parte mia.
«Non ti lascerò parlare, quindi apri bene le orecchie e non svenire. Abbiamo un po’ di tempo prima che la nostra amica ci raggiunga; sai di chi sto parlando, vero? E’ stata qui non più di un’ora fa e dai lividi che ti ha lasciato sul corpo penso proprio che tu non sia molto simpatico neanche a lei!»
Sta piangendo: pesanti lacrime scendono lungo il viso mescolandosi al sangue. Sono comunque stupito di me: neanche questo riesce ad impietosirmi! E lo stupore è anche il suo quando capisce che le lacrime non hanno sortito l’effetto sperato: sto addirittura sorridendo.
«So quello che hai tentato di farle ma hai cercato di stuprare la donna sbagliata, vecchio mio: la nostra psicologa fu campionessa nazionale di arti marziali per ben quattro anni di seguito. Non lo sapevi, vero? Un tipino pericoloso! E l’hai fatta davvero incazzare!
Hai idea di come possa sentirsi una donna stuprata? Violata e profanata da un essere viscido e lurido come te? Neanche io posso immaginarlo, ma posso però intuire la paura che tutte le donne provano prima, giusto un momento prima di essere violentate!»
Continuo a guardare la sua faccia e a gustarmi ogni sua smorfia di dolore.
In un attimo ripiombo nei miei brutti ricordi, a quel giorno in cui anche la mia infanzia rischiò di essere violata.



27

Era una domenica, lo ricordo perfettamente, anche perché la domenica il collegio era pressoché vuoto in quanto molti dei bambini e dei ragazzi più grandi trascorrevano il fine settimana nelle rispettive famiglie. Io ero uno dei pochi che rimaneva lì; purtroppo era impossibile per mia madre venire a prenderci tutti e quattro e poi riportarci in tempo per la scuola il lunedì mattina. Le mie tre sorelle si trovavano in un altro collegio gestito da suore a poco più di due chilometri da dov’ero io. Questo mi dava il privilegio di passare ogni tanto una domenica con loro, ma sempre e solo quando lo decidevano i miei assistenti. Le rare volte in cui capitò trascorsi bei momenti perché adoravo le mie sorelle e avvertivo molto la loro mancanza!
A parte il fatto che non vi era scuola, dunque, per me non cambiava assolutamente nulla, anzi, era anche peggio, visto che quelli che rimanevano nell’internato con me erano i più cattivi. Trovatelli, orfani e persino qualche piccolo delinquente collocato da noi perché troppo giovane per scontare una pena in carcere. Odiavo il sabato ma soprattutto la domenica. La sorveglianza era molto meno stretta: quasi tutti gli assistenti e i preti, approfittando del fatto che rimanevamo in pochi, si assentavano. La domenica mattina, come sempre, le due ore di messa erano d’obbligo. Ma almeno lì ero al sicuro. Il pericolo di essere deriso, picchiato o vittima di qualche scherzo di cattivo gusto cominciava a partire da mezzogiorno. Da quel momento in poi dovevo stare molto attento, cercavo di aggirarmi sempre nelle vicinanze di chi ci sorvegliava, ma a volte mi isolavo, mi trovavo un posticino tranquillo e leggevo giornalini. Quel giorno, finita la messa, andai in bagno. Ce n’erano due, uno al piano di sopra comprensivo di docce vicino al dormitorio, e uno al pianoterra. Due immensi vani eternamente invasi da cattivi odori, su cui prevaleva in assoluto quello dell’urina. Due file di piccoli box in legno erano disposti a destra e a sinistra, e, all’interno, non c’era il water tradizionale bensì quello alla turca, con il classico foro in mezzo e le due pedanine per i piedi. Al centro si stendeva un lunga fila di lavandini che all’origine dovevano essere bianchi e che, invece, ricordo di un colore giallastro. Ero al secondo anno di internato, avevo già una buona padronanza della lingua italiana, ma ancora non capivo tutto, ancor meno le volgarità. E in quei bagni si sarebbe potuto scrivere un libro con tutto quello che c’era sui muri. Quando ero lì dentro passavo molto tempo a cercare di decifrare le scritte, anche se i disegni annessi le rendevano abbastanza esplicite. Grossi falli eretti pronti ad entrare in enormi vagine, testicoli enormi, sederi di tutte le grandezze pronti anch’essi ad essere sodomizzati. Tra tutti questi disegni non mancava mai quello della faccia del nostro direttore, sempre riconoscibile con i suoi occhiali dalla grossa montatura nera. Ogni anno, in primavera, faceva riverniciare tutti i bagni; la settimana dopo tutto tornava come prima.
Ero all’interno di uno di questi quando udii un rumore di passi; sentivo mormorii, qualcuno era entrato. Poi una voce:
«Francesinooooo!» E ancora…
«Dove sei frocetto?»
A queste parole fecero seguito rumori molto più forti, davano calci alle porte e le aprivano tutte. Mi rivestii alla svelta, stavano per arrivare alla mia. Feci in tempo ad indietreggiare e ad appiattirmi sul muro alle mie spalle quando uno di loro, con un calcio, spalancò la mia porta. Erano i soliti balordi, decisi questa volta a fare qualcosa di più di un semplice scherzo. Il più grande mi mollò subito un ceffone, altri due mi immobilizzarono.
«Se strilli ti facciamo davvero male, hai capito?»
Io li guardai e con voce stridula chiesi loro di smetterla e di lasciarmi in pace. Ma per tutta risposta ebbi un altro schiaffo, più forte del primo. A quel punto sapevo che me la sarei vista brutta; ero pronto a prenderle come al solito, rassegnato e più che mai impaurito. Ma picchiarmi non era il loro unico scopo quel giorno: mentre i due continuavano a bloccarmi, l’altro cominciò a slacciarsi i pantaloni… Non erano mai arrivati a tanto, ero terrorizzato; uno di quelli che mi teneva mi prese la mano con forza pretendendo che lo toccassi. Poi cercarono di spogliare me; era evidente ciò che intendevano fare, lo avevo capito. Consapevole del fatto che ero nell’impossibilità di reagire cominciai a piangere ma loro andarono avanti comunque.
Fortunatamente le loro voci e il mio pianto attirarono l’attenzione del direttore che passava proprio là davanti in quel momento. La porta d’ingresso dei bagni si aprì e udimmo la sua voce:
«Che cosa sta succedendo qui dentro?»
Mi mollarono e mi buttarono per terra sferrandomi ancora qualche calcio ed uscirono come delle schegge. Ero per terra dolorante, alzai lo sguardo e vidi la tonaca nera.
«E’ mai possibile che ci sei sempre tu quando succede qualcosa? Smettila di frignare ed esci di qui!»
Pensai: “La tua faccia ha ragione di essere disegnata qui dentro.”
Ma non mi era poi andata così male.






28

A distogliermi dai miei brutti ricordi ci pensa Sonia entrando nella stanza. Appena varcata la soglia la vedo bloccarsi alla vista di Roberto; la sua bocca resta spalancata dallo stupore per la scena che le si para davanti.
«Ti stavamo aspettando piccola, tutto bene?»
«Sì… sì… M., tutto bene. Incredibile quello che hai fatto.»
«Davvero? Ma il bello comincia solo ora. Dimmi: ho notato parecchie ecchimosi sul suo corpo, e non può essersele procurate da solo. Sai cosa è successo?»
«Beh, quando sono scesa prima, sembrava che non respirasse bene per cui ho pensato di togliergli il bavaglio ed ha cercato di mordermi. Così, in uno scatto di rabbia, l’ho colpito. Tutto qui.»
«Capisco, ma in futuro tesoro non nascondermi nulla, neanche il più piccolo particolare.»
«Va bene, non pensavo fosse importante. Intendi farlo crepare così?»
«Affatto: guarda il filo spinato che lo avvolge, vedi dove va a finire? Prova a girare quella manovella.»
Non si fa pregare, ma ne ero sicuro. Timidamente si avvicina all’attrezzo in ferro. Poi l’afferra e si gira verso di me, quasi volesse un segnale per cominciare.
«Quando vuoi Sonia…»
Guardo Roberto, ma guardo anche lei: sta cominciando a far girare la manovella molto lentamente: vuole godere dello spettacolo. Ora le punte acuminate si accingono a penetrare in quel corpo sempre di più. Lui non può gridare, si limita a sbattere la  testa contro il tavolo. E’ solo un ammasso di carne sanguinolenta, e quando le punte si conficcano tra i vasi sanguigni maggiori, schizzi di sangue spruzzano ovunque nella stanza, anche su di noi. Non dovrebbe durare ancora per molto: il giro di filo che gli ho fatto al collo lo ucciderà tra breve. Guardo di nuovo lei; i suoi occhi sputano odio, ma non ha nessuna intenzione di fermarsi: girare quell’ argano diventa sempre più dura e lei, incurante degli sforzi e del sangue che la ricopre dalla testa ai piedi, continua a due mani. Roberto è andato, ha il collo spezzato.
«Sonia è finita, fermati!»
Per tutta risposta comincia a gridare come una pazza, sforzandosi ancora di più per far girare quella manovella.
«Sonia mi senti? E’ morto, è tutto finito, smettila!»
Inutile, come un automa rimane aggrappata a quell’ arnese con gli occhi sbarrati. Sto per dirigermi verso di lei, quando avverto un tonfo sordo alle mie spalle. Mi giro: la testa di Roberto è ai miei piedi, gli occhi iniettati di sangue. Afferro il capo reciso per i capelli e mi avvicino alla psicologa.
«Guarda, puoi fermarti ora.»
Le sue grida isteriche si fermano d’un botto, mi guarda e poi fissa per un breve istante la testa. Mi lancia un sorriso e cerca di risistemarsi i capelli.
«Ho bisogno di una doccia, ci vediamo tra un po’.»
Mi siedo e rimango un po’ a contemplare quel corpo martoriato senza testa, a riflettere su quello che è appena accaduto. Ora so che Sonia è davvero pronta a tutto, forse non esiterebbe un istante a fare la stessa cosa a me se questo significasse salvare il suo Maurizio.
 Non conoscevo per nulla questa parte di lei: dovrò davvero stare molto attento!








29

Dopo essermi liberato dei miei indumenti imbrattati di sangue, raggiungo la camera. Lei, nel frattempo, si è già lavata ed è davanti allo specchio con una splendida vestaglia gialla.
«Sono contento di vedere che hai ripreso forma umana, piccola!»
«Non so cosa mi sia successo M., ho perso il controllo: tutto quel sangue…»
«Io ho avuto l’impressione che tu ci provassi piacere, come se odiassi quell’uomo con tutte le tue forze.»
«Odiarlo? Ma se neanche lo conoscevo! Comunque è quello che volevi no? Non sei soddisfatto?»
«O sì che lo sono, non mi aspettavo tanto da te. Ancora una volta mi hai spiazzato, sei stata formidabile.»
«Io invece ho paura, che cosa sto diventando? Sono peggiore di quelli a cui davo la caccia, peggiore di quelli che per una vita intera ho tentato di curare.»
«Ora non puoi più tornare indietro e credimi: quelli si meritano quello che gli stiamo facendo.»
«Ti credo, non sarei qui altrimenti. Vuoi dormire con me?»
«No! Faccio una doccia e me ne vado di sotto. Buona notte Sonia.»
Questa notte niente distrazioni. Ci pensa l’acqua tiepida a togliere ogni traccia del recente passato; chiudo gli occhi e me la lascio scivolare addosso. E’ un giorno importante domani, tocca a Domenico. Sarà davvero una giornata  speciale.














Sesta stanza: DOMENICO

































30

Sonia dorme, scendo le scale e vado in cucina. Le provviste non mancano nella casa, il ripostiglio ne è pieno. Rovisto tra il vario scatolame accatastato sugli scaffali e prendo quella che sembra essere della macedonia. Mangiare non è mai stato un problema, per troppi anni sono stato abituato a nutrirmi di schifezze. Sono di palato buono, ma so anche adattarmi. Ripenso ai nostri pasti in quel collegio, tutti i lunedì la stessa cosa, così come i martedì e i mercoledì e tutti gli altri giorni della settimana. Non ero un ragazzino difficile per quello che riguardava l’alimentazione, ma alcune delle cose che ci davano non mi piacevano proprio. Non avevo scelta, mi obbligavano a mangiarle. L’unica via di salvezza era un amico con gusti diversi dai miei, capace di apprezzare ciò che io odiavo; fortunatamente io c’ero riuscito. La cosa che più mi disgustava erano i ceci, un enorme piatto di ceci conditi con chissà che cosa e che ci servivano ogni mercoledì sera. Riuscivo a smaltire sempre anche quelli: un mio amico ne andava pazzo. Quel mercoledì sera però lui non c’era, era malato e per me sarebbe stato un vero problema. Inutile sforzarmi, ci avevo già provato, ma veri e propri conati di vomito mi assalivano ad ogni tentativo. Allora decisi di non mangiare; sapevo che mi avrebbero obbligato, che avrebbero insistito, ma che alla fine avrebbero ceduto e me la sarei cavata con una punizione. Non fu così. Le regole erano chiare: non ci si alzava finché il piatto non era vuoto. Il nostro refettorio era grandissimo, conteneva una moltitudine di tavoli quadrati, ognuno con quattro posti, e convergevano tutti verso il centro dell’enorme stanza. Lì ce n’era uno rettangolare, molto più grande, dove prendevano posto i nostri assistenti ed i preti. A mano a mano che i ragazzi finivano di mangiare si alzavano ed uscivano per andare in cortile, o in una sala di ricreazione. Il refettorio si stava svuotando ed io ero ancora lì con quel piatto davanti. Arrivò il momento in cui rimasi solo, con i sorveglianti che erano sempre gli ultimi a lasciare il luogo. Sembrava non facessero caso a me, continuavano a parlare tra di loro ignorandomi del tutto. Mi balenò l’idea di alzarmi ed uscire, ma me la tolsi subito dalla testa. Alla fine il refettorio si svuotò del tutto; rimase solo il nostro direttore, un uomo sulla sessantina, canuto, volto duro ed occhi eternamente corrucciati dietro quegli enormi occhiali. Il colletto bianco e la sua tonaca nera da prete che, in altre circostanze, avrebbero trasmesso un senso di serenità e fiducia, in me invece, incutevano paura. Rappresentava ai miei occhi quello che nell’immaginario infantile riveste il ruolo del temuto uomo nero. Com’era solito fare, incrociò le braccia sul petto e si incamminò nella mia direzione con passo molto lento. Io ero lì, con quel piatto davanti ancora colmo dei legumi, non restava altro da fare che aspettare la sfuriata del sacerdote. Quando mi raggiunse non disse una parola, si limitò a camminare avanti e indietro alle mie spalle. Ogni tanto si fermava e sentivo la sua presenza proprio dietro di me. Non sapevo come comportarmi: a volte bastava parlare per ricevere un ceffone; decisi dunque di restare in silenzio, senza neanche il coraggio di girarmi. In quegli attimi pensieri di ogni sorta attraversarono la mia mente: ripensavo soprattutto a quello che gli altri ragazzini dicevano sul direttore. Uno di loro una volta mi chiese:
«Hai mai ricevuto una “carocchia”?»
Io risposi che non sapevo neanche cosa fosse. Nel dialetto di quel paesino una carocchia altro non era che un colpo portato sulla testa con forza con le nocche delle dita. Era il colpo preferito del nostro caro rettore, dopo quello dell’unghia del suo pollice che ci penetrava nel collo. Una sensazione bruttissima quella che stavo provando: lui era dietro di me, sapevo che da un momento all’altro mi avrebbe colpito, una vera e propria tortura…. E tutto per un piatto di ceci! Non feci in tempo neanche a finire il mio pensiero che un colpo fortissimo mi arrivò sulla testa; provai un dolore indescrivibile, tutto diventò nero, poi  rosso, poi di nuovo nero! Portai le mani nel punto in cui mi aveva colpito. Ero convinto di sanguinare, sentii subito invece un enorme bozzo. Mi colpì con una tale violenza che il dolore mi aveva annebbiato la vista.
«Allora? Mangi o intendi passare la notte davanti al tuo piatto?»
La sua voce risuonò e mi fece sussultare. Ancora dolorante e con un filo di voce gli risposi…
«Direttore non ci riesco, mi viene da vomitare. Ci ho provato ma davvero non riesco.»
«Tu da qui non ti muovi fino a quando non finisci di mangiare, hai capito?»
Dopo aver urlato queste parole se ne andò, e ricordo di aver pensato che quella fosse la cosa più importante. Rimanere seduto a quel tavolo tutta la notte non mi sembrava poi una punizione così cattiva, ce la potevo fare. Vennero a svegliarmi qualche ora dopo; mi trovarono con la faccia per metà immersa nel piatto di ceci. Dovetti rinunciare alla fetta di pane e cioccolato che ci veniva data per merenda tutti i giorni alle cinque del pomeriggio, e ciò per un mese. Quante volte pensai di spiegare tutto quello che accadeva a mia madre, ero deciso a farlo sempre più; poi quando veniva a trovarmi rimanevo in silenzio. Sapevo che lei non sarebbe stata zitta, sarebbe andata su tutte le furie e poi avrebbe litigato con il direttore. Ma dopo, una volta andata via? Sarebbe stato ancora peggio per me lì dentro. Molto peggio. Quindi desistevo ogni volta, convinto che le cose potessero cambiare. Come mi sbagliavo!




31

L’odore del caffè mi sveglia, apro gli occhi e vedo la tazzina fumante sul tavolo al mio fianco.
«Buongiorno M.!»
«Ciao Sonia.»
«Come fai a dormire su questo divano? Saresti molto più comodo su con me!»
«Preferisco stare qui. Sei già stata da loro? Hai fatto il tuo giro?»
«Sto per andare: oggi di chi vuoi occuparti? Stanza numero sei?»
«Sì, te l’ho già detto, Maurizio sarà l’ultimo, dovrà essere il nostro capolavoro. Oggi tocca a Domenico.»
«E’ anziano... cosa vuoi che gli importi di crepare? E infliggergli sofferenze gli  provocherebbe quasi sicuramente un infarto, ne sono certa.»
«Questo lo so Sonia, di fatto non lo toccherò neanche. Almeno non fisicamente, ma toccherò la sua anima, e fargli scoppiare il cuore è il mio scopo. Quando andrai da lui, oltre che assicurarti che sopravviva ancora per un po’, voglio che tu faccia alcune cose. Troverai nell’ultima stanza un televisore: portalo nella sua e sistemaglielo davanti. Nell’armadietto ci sono inoltre dei divaricatori oculari, devi applicarglieli con molta cura. Prendi anche le  gocce di lacrime artificiali; mettine ogni tanto nei suoi occhi visto che non potrà abbassare le palpebre per umidificarli. Hai capito tutto? Io ti raggiungo tra un po’.»
«Sì, sei molto enigmatico, ma mi hai incuriosita, non vedo l’ora di sapere che cos’hai in mente. A dopo.»
Con un passo da modella si avvia verso le stanze, il camice bianco attillato mette in risalto le sue forme perfette. Aspetto che sparisca dietro la grossa porta e l’attimo dopo mi ritrovo già in cima alle scale al piano di sopra.
Raggiungo la mia piccola stanzetta segreta; i monitor perennemente accesi mi permettono di individuare subito la posizione di Sonia. E’ da Maurizio, gli ha già tolto il bavaglio e gli sta dando da bere. Non smette di parlargli accarezzandogli la fronte; ogni tanto la vedo chinarsi e baciarlo sul viso, prendergli le mani e bagnargli le labbra e la fronte. Approfitta ora Maurizio, goditi fino in fondo questi rari momenti di dolcezza e tenerezza: il tuo tempo sta per finire. Dopo quasi quindici minuti e innumerevoli altri baci e abbracci Sonia esce dalla stanza numero tre ed entra da Domenico. Esegue perfettamente tutto ciò che le ho chiesto; mi accorgo che, tranne che da Maurizio, non toglie mai la sua mascherina perché sa che altrimenti la riconoscerebbero, e non vuole rischiare che io venga a sapere che li ha incontrati tutti. Lascio la mia piccola postazione nel momento in cui varca la soglia della settima stanza. Veramente una brava scolaretta disciplinata, obbediente e volenterosa. Già, ma fino a quando?
Disciplina e obbedienza, le due cose che hanno caratterizzato più di tutto la mia vita in quel collegio! Ero un bambino molto educato e rispettoso delle regole ma, come tutti, ogni tanto ne infrangevo qualcuna, pur consapevole dei rischi. Mi viene in mente un episodio, accaduto quando avevo circa dodici anni. Era un pomeriggio, ed eravamo nel così detto dopo scuola: quattro ore di fila a studiare e fare i compiti. Anche quel giorno che si presentava abbastanza tranquillo, mi riservò qualcosa di tremendo.








32

Avevamo grandi aule all’interno del collegio, dedicate appunto allo studio. Quella in cui mi trovavo io era la più grande: ospitava una quarantina di ragazzi seduti in banchi identici a quelli della scuola. C’era un’ enorme lavagna e la cattedra dove prendeva posto l’assistente di turno. Mi ero spesso chiesto a cosa servisse quella lavagna che non fu mai utilizzata. Infatti i nostri sorveglianti non ci interrogavano mai, eravamo solo tenuti a fare silenzio e stare con la testa sui libri. Un giorno, però, capii che a qualcosa serviva: quando fui sorpreso a parlare con un mio vicino di banco. Fummo chiamati entrambi e per punizione ci costrinsero ad inginocchiarci dietro la lavagna. Sparsa per terra c’era della ghiaia: lì dietro avremmo sofferto e le nostre smorfie non avrebbero distratto gli altri. Ingegnoso! Passammo interminabili minuti a toglierci quei minuscoli pezzettini di pietra dalle nostre ginocchia; alcune erano penetrate così in profondità che dovemmo utilizzare delle pinzette. A volte, malgrado tutto, riuscivamo persino a giocare a battaglia navale, con l’alfabeto muto. Se venivamo sorpresi rischiavamo parecchio, ma d’altronde non potevano controllare proprio tutto! Quel giorno non avevo alcuna voglia di studiare; ero seduto in fondo all’aula e pensai che l’assistente non si sarebbe mai accorto che sul libro della scuola avevo messo un giornalino. Era un’edizione speciale di Diabolik, lo ricordo benissimo, uno dei miei personaggi di fumetti preferito. Ero così assorto nella lettura che non mi accorsi neanche che il sorvegliante stava facendo il mio nome ad alta voce. Fu il mio compagno di banco che cominciò a darmi gomitate distogliendomi da quello che leggevo e a riportarmi alla realtà.
«Che cosa stai leggendo?»
Mi alzai con uno scatto e con riflessi da felino riuscii a far cadere il giornalino sotto al banco.
«Sto studiando il libro di storia!»
Avevo appena finito di parlare quando uno di quelli che da sempre mi perseguitavano esclamò:
«Assistente, guardi che ha lasciato cadere qualcosa!»
Ero fregato. L’assistente era in piedi, aveva in mano un righello di cinquanta centimetri, quelli in alluminio. Lo teneva nella mano destra e, guardandomi dalla sua cattedra, si dava dei colpetti nel palmo della sinistra. Quello era un segnale esplicito di cosa mi aspettava. Anche in questo caso le regole erano chiare: quanti passi avrei fatto per arrivare sino a lui, altrettanti sarebbero stati i colpi inferti sulle mie mani con quel righello. Non di piatto naturalmente, ma di taglio… La forza dei colpi era decisa a seconda della bontà del nostro sorvegliante. Essendo seduto nelle ultime file sapevo che avrei fatto parecchi passi, e quando mi chiese di andare da lui e di portargli ciò che avevo lasciato cadere, ricordo di averli allungati più che potevo. Ma una volta giunto alla cattedra ne avevo comunque contati dieci, erano tantissimi!
«Quindi hai cercato di fregarmi? Leggevi un giornalino invece di studiare? Lo sai cosa ti meriti adesso?»
Sapevo che ogni scusa sarebbe stata vana, lo avrebbe solo fatto arrabbiare di più, quindi decisi di stare zitto.
«Allunga le braccia e apri le mani!»
Lo feci senza farmi pregare, allungai le braccia e piano piano gli mostrai il palmo delle mie mani. Con gli occhi chiusi e la testa rivolta verso gli altri ragazzi aspettai il primo colpo. Quando arrivò capii che quell’uomo non sapeva neppure lontanamente cosa fosse la bontà: mi colpì con una forza tale che la mia mano destra andò a sbattere contro la cattedra.
Continuavo a tenere gli occhi chiusi e, ad uno ad uno, contavo i colpi che mi venivano inferti. Riuscii però a togliermi una grande soddisfazione: nemmeno un gemito uscì dalla mia bocca quel giorno. Il supplizio finì e andai a sedermi al mio banco; le grida di dolore si erano tramutate in lacrime che scendevano copiose sul mio viso. Mai più avrei letto un giornalino durante le ore di studio.



33

Raggiungo la stanza di Domenico, Sonia gli sta somministrando le gocce negli occhi. Due grosse sfere che ruotano ora a destra e ora a sinistra, su e giù, poi scrutano me appena entro. Occhi privi di palpebre, occhi ancor più facili da leggere, pieni di odio e terrore. Mi avvicino al tavolo e, azionando il meccanismo, lo colloco in posizione eretta.
«Buongiorno Domenico, ora ti toglierò il bavaglio; in questo sei privilegiato, con gli altri non l’ho fatto!»
Sonia mi guarda incredula, si sistema la mascherina: come supponevo ha paura che Domenico possa dire di averla riconosciuta. Mi avvicino e, con un gesto veloce, sciolgo la cinghia che lo costringe al silenzio.
«Bastardo figlio di puttana! Ma chi cazzo sei! Cosa vuoi da me?? E tu brutta troia non mi toccare!»
«Quante brutte parole, non sprecare il tuo fiato sputando veleno vecchio, cerca piuttosto di ascoltarmi bene.»
Vedo Sonia uscire dalla penombra alle spalle di Domenico, il tempo di mettere ancora qualche goccia nei suoi occhi e poi sparire di nuovo.
«Voglio farti una domanda, e pensa bene alla risposta. Voglio sapere: a cosa tieni più che a tutto? Qual è la cosa più importante della tua vita?»
«E a te che ti frega? Cosa ci faccio qui maledetto bastardo? Che posto è questo? Slegami e ti faccio vedere!»
«Smettila di urlare altrimenti giuro che ti imbavaglio di nuovo. Rispondi alla mia domanda!»
Gli urlo ad un centimetro dalla faccia. Di colpo l’anziano si calma, il suo viso scavato e segnato profondamente dal tempo, che un momento prima aveva assunto sembianze diaboliche, ora appare dolce e timoroso. La sua voce placata e tremante risuona nella stanza.
«Chiunque tu sia, ti scongiuro, abbi pietà. Ho settantacinque anni, il cuore malconcio e non solo, che male potrei farti? Non ti ho mai visto in viso, nè te, nè la donna alle mie spalle. Non avete nulla da temere, lasciatemi andare.»
«Ti ho fatto una domanda: qual è la cosa a cui tieni di più?»
«Cosa vuoi che ti dica, potrei risponderti che è la mia vita, ma non penso che mi crederesti. Non alla mia età. Ho un nipotino di sette anni, l’unico. E’ lui la mia vita. Non tengo ad altro!»
La sagoma di Sonia appare più o meno ogni tre minuti per detergere gli occhi di Domenico che ormai non si agita neanche più, consapevole dell’inutilità dei suoi gesti.
«Bene, sei stato sincero. Vedi, lo sapevo già, ed ora guarda.»
Il mobiletto di fronte a lui con il televisore e un lettore DVD è coperto da un panno nero; lo afferro e con un movimento veloce lo tiro via. Un semplice click e partono le immagini; la prima cosa che appare sullo schermo è una parete bianca. Poi l’inquadratura cambia, un letto a due piazze, lenzuola blu e la sagoma di un corpicino. Un bambino che sta dormendo. Di colpo il diavolo si impossessa di nuovo del vecchio!
«Maledetto bastardo!!!! Cosa gli hai fatto??? Io t’ammazzo!!! Lurido pezzo di merda!!! Lui no!!! Prenditela con me ma non con quell’anima innocente. Maledetto!!!»
«Quante anime innocenti hai profanato tu Domenico? Osserva bene, questo hanno patito!»
Persino la psicologa è sconvolta da quello che sta vedendo; fa un passo verso di me, le faccio cenno di fermarsi. Mi avvicino a Domenico e lo imbavaglio di nuovo, non smetterebbe di ingiuriare comunque. L’inquadratura cambia repentinamente: ora c’è un uomo di spalle, completamente nudo. Si china sul bambino e comincia ad accarezzargli la schiena. Il bambino si sveglia, si dibatte, urla, la lotta è impari, si arrende. Il vecchio si dimena sempre più, ogni grido del bambino è simile ad una pugnalata nel cuore, si irrigidisce  e sbatte la testa con forza sul tavolo. Diventa persino impossibile per Sonia continuare a somministrargli le gocce, non reggerà ancora per molto. Prima ancora che l’atto osceno si compia la voce di Sonia riecheggia:
«M., il vecchio è andato. Arresto cardiaco. Togli quella porcheria dalla mia vista!!!»
Con un calcio violento mando in frantumi lo schermo mettendo fine allo spettacolo ripugnante al quale stavamo assistendo. Speravo durasse di più quel verme! Placata la mia rabbia volgo prima lo sguardo sul viso di Domenico, la cui espressione in punto di morte mi persuade di aver ottenuto comunque il risultato sperato. Poi guardo Sonia, è seduta con la testa tra le mani.
«Che cosa ho appena visto in quel filmato? Qualsiasi cosa ti abbia fatto quest’uomo non posso credere che tu sia arrivato a tanto!»
«Non era suo nipote, almeno non nelle scene finali, e l’uomo di spalle non ero certamente io, te ne sarai accorta!»
«Spiegati, ti prego, almeno questo me lo devi!»
«Con la tecnologia oggi puoi fare di tutto cara, e questo tipo di film li trovi su internet. Siti creati da pedofili. Vengono oscurati regolarmente e, altrettanto regolarmente, ne aprono altri quei pervertiti! In questa mia piccola messa in scena la cosa più difficile è stata prelevare il nipote di Domenico in piena notte; un leggero anestetico mi ha permesso di fare il tutto senza che si accorgesse di nulla. Mi è bastato ricreare in una camera di albergo la stessa scena di quella che hai visto nel filmino, e se hai notato, era abbastanza povera. Un letto, lenzuola blu, e parete bianca. Subito dopo ho filmato il bambino disteso in quel letto di schiena, inquadrando un attimo il suo viso per rendere il tutto più credibile.
Poi un semplice montaggio che si può fare facilmente su un computer ed il gioco è fatto! Ho riportato il bambino nella sua casa e quindi nel suo letto appena due ore dopo. A lui non avrei mai fatto del male.»
«Sei diabolico! Ma dimmi, lui era un pedofilo?»
«Dei peggiori! Vai a riposarti ora Sonia.»
«Va bene... non ti chiedo più niente. Grazie M.»
Solo, davanti al vecchio corpo privo di vita, prendo coscienza finalmente del vero scopo di tutto questo: la consapevolezza di non voler attendere il famigerato Giudizio Universale!












Settima stanza: ANDREA
































 “Quando pensi che sia ormai troppo tardi, quando sei convinta che a te non potrà mai più accadere, quando giuri a te stessa che mai più darai perché per troppo tempo hai dato senza mai ricevere. In quel momento, come un meteorite che si schianta al suolo, capita qualcosa che ti fa ricredere, ti fa rinascere, ti infonde nuova speranza. Ero completamente svuotata, senza voglia di vivere. Ridere, e anche semplicemente sorridere, a volte era difficile. Sei apparso tu Maurizio, il mio meteorite, e il tuo impatto ha lasciato il segno, spero indelebile. Grazie amore mio, grazie per quello che mi stai dando. Ora provo di nuovo a dormire, non sarà facile, conto le ore che ci separano!”

Chiudo quasi disgustato il piccolo diario. Cavolo!!! La dottoressa Sonia Mannìci completamente persa! E bravo il nostro Maurizio, ci sai veramente fare tu con le donne! Li sto guardando da almeno dieci minuti, non si sono mai staccati. Nemmeno la paura che io possa entrare in quella stanza da un momento all’altro riesce a fermarli. Profittate ragazzi, anche io sto contando le ore, e ne rimangono davvero poche!
Ripongo il suo diario; passa così tanto tempo nella stanza di Maurizio che ho quasi finito di leggerlo! Più che mai dovrò stare attento: mi rimane da sistemare Andrea, e già immagino che dopo questo quei due tenteranno qualcosa. Se solo sapesse di che genere di bastardo si è infatuata!
Ma lui è bravo, sa come fare.
Vederli su quello schermo, mano nella mano, a guardarsi intensamente negli occhi e baciarsi dolcemente, mi fa tornare in mente l’ennesima volta un brutto momento della mia adolescenza. Quando presi la mia prima cotta, io tredicenne, lei un anno in più; si chiamava Anna.
E, come uno schianto, vengo colpito da un nuovo ricordo.

34

Per molto tempo, lungo il tragitto che dal collegio ci portava a scuola, avevo notato una ragazzina uscire da una casetta tutti i giorni alla stessa ora. Non frequentava il nostro istituto, usciva di casa e faceva circa duecento metri  sino alla fermata dell’autobus che stava davanti alla nostra scuola. Questo avveniva tutte le mattine, e io tutte le mattine la osservavo fino al suono della campanella che ci intimava di entrare.
Quante volte ho desiderato che si voltasse e guardasse dalla mia parte! Capelli nerissimi, quasi sempre legati, occhi grandi da bambola, un viso perfetto, e un corpicino da far girare la testa. Aveva sempre uno zainetto rosa sulle spalle e, la cosa che più mi colpì, fu che non la vidi mai parlare con altri ragazzi, nonostante ce ne fossero sempre parecchi  ad aspettare l’autobus. Se ne stava in disparte, a leggere o a guardare le nuvole; già da questo mi ero  convinto che avessimo una qualche affinità. Maledicevo la mia timidezza, e anche la mia erre moscia! Neanche a dirlo giornalmente venivo preso in giro dagli altri ragazzi che si erano accorti di questo mio innamoramento a distanza. Li lasciavo dire, a volte neanche li sentivo, preso com’ero a guardarla. Poi accadde, ricorderò per sempre quella mattina: la fissavo da almeno dieci minuti quando ad un tratto si girò verso di me! Inutile far finta di niente e guardare da un’altra parte: non riuscivo a distogliere lo sguardo. E stava fissando proprio me, ne ero sicuro, ero solo su quel muretto accanto alla scuola. Il cuore mi batteva all’impazzata, le lanciai un sorriso, lei ricambiò. Quel sorriso mi procurò la sensazione di volare senza ali; rimasi imbambolato tutto il giorno e delle punizioni che certamente mi beccai per non essere stato attento in classe non mi importò nulla. Il mattino seguente, dopo l’ennesima notte insonne, riuscii a trovare il coraggio di andare da lei. La raggiunsi alla fermata dell’autobus accompagnato dalle voci degli altri ragazzi che sbraitavano oscenità di ogni genere. Non diedi peso alle loro parole; d’altronde ero troppo concentrato su quello che mi ero preparato a dire a quella splendida fanciulla. Ma una volta giunto da lei, tutto ciò che uscì dalla mia bocca fu:
«Ciao piacere, Massimo Dantòn!»
Questo la fece ridere, mi tese la mano e rispose:
«Piacere Massimo Dantòn, io sono Anna!»
Poi continuò:
«Mi sono spesso chiesta quando ti saresti deciso, è più di un anno che guardi dalla mia parte ogni santo giorno!»
Tutto fu molto diverso da come lo avevo immaginato: dovevo essere io lo sfrontato e lei ad intimidirsi. Mi bruciavano le gote talmente erano rosse, e questo la fece ridere ancor di più.
«Allora signor Dantòn, sai che molto tempo fa in Francia un tizio che portava il tuo stesso nome fu ghigliottinato?»
Notando la mia faccia ebete, aggiunse:
«Ma insomma, la rivoluzione francese, la presa della Bastiglia, hai presente? Ma cosa studiate in quella scuola?»
Mi parlò della sua grande passione per la storia: sapeva tutto, ogni data, ogni grande evento storico. Qualsiasi cosa io le chiedessi sapeva rispondermi. Ero così felice, le mie giornate erano scandite da quegli incontri, tutti i giorni. Mi parlò della sua solitudine, del disagio che provava nello stare in mezzo agli altri, del suo sentirsi così diversa da tutti. E credo che fu così che ci innamorammo, ci sentivamo capiti e complici finalmente. Poi ci fu il nostro primo bacio, proprio lì, alla fermata del suo autobus. Fu bellissimo, le sue labbra fresche e morbide m’avvolgevano di calore; forse fui impacciato, ma niente rovinò quel momento. Non ci importò nulla della gente che c’era intorno a noi, che ci guardasse o no, ma qualcun altro ci osservava. Piazzati su quel muretto vicino alla scuola, i soliti bulli. Li avevo notati ed ero fiero che potessero vedere che ce l’avevo fatta, che, nonostante mi avessero ripetuto più volte che non avrei mai avuto il coraggio di abbordarla, non solo lo avevo fatto, ma la stavo anche baciando. Inconsapevolmente avevo scatenato in loro ancora più astio, più cattiveria. E ancora una volta l’avrei pagata molto cara!
In quegli anni avevo sopportato  molto, dolori fisici e morali, ma quello che dovetti subire quella volta fu davvero troppo, e condizionò per sempre la mia vita.
Quel lunedì mattina, usciti dal collegio, quei piccoli bastardi  già ridevano. Mi precipitai verso la scuola; avevo anche scritto una piccola poesia per Anna. La vidi alla fermata e, come al solito, le andai incontro. Ero ad un metro da lei quando, con un tono secco e forte, mi disse:
«Stai lontano da me! Vattene e non farti mai più vedere!»
Pronunciò quelle parole con una tale cattiveria che, all’impatto, tutto mi sembrò un incubo; non capivo. Con un filo di voce riuscii a dire:
«Anna ma cos’hai? Cosa ho fatto di male per essere trattato così?»
E lei:
«E me lo chiedi? So tutto, i tuoi amici mi hanno detto tutto! E nei minimi particolari quei porci! Vai da loro e lasciami in pace! Mi fai schifo!»
Fu l’ultima volta che parlai con lei; ci riprovai un paio di volte, il risultato fu anche peggiore. Non smettevo di chiedermi cosa fosse accaduto quando tornai verso la scuola quel lunedì. Con la testa bassa e l’andamento di chi sta trasportando un macigno sulle spalle, ebbi la risposta dagli stessi ragazzi che poco prima ridevano:
«Allora francesino? Come mai oggi sei già di ritorno? La tua bella ti ha cacciato? Ahahahah!!!!»
Ridevano, ridevano con gusto, incapaci di capire il dramma che stavo vivendo. Poi il più grande di loro, il più spavaldo, tornò serio. Mi si avvicinò e, come niente fosse, mi disse:
«Abbiamo fatto una visitina alla tua amichetta; sai che sua madre ci ha persino accolto offrendoci caramelle e dolcetti? Non ci è stato difficile convincerla che sua figlia frequentava un frocetto del collegio. Si è scandalizzata quando siamo entrati nei particolari. Poi ci ha cacciati quando le abbiamo detto che la metà di noi era già stata con te. Tutto ciò mentre la figlia piangeva e non si fermava; ha pianto sempre la tua Anna!»
Fui invaso da un bruciore intenso che dallo stomaco cominciò a salirmi nella testa; senza pensarci lo presi per il collo e lo feci cadere per terra. Nonostante fosse molto più grande di me riuscii a bloccarlo, la rabbia aveva duplicato la mia forza. E lo picchiavo, con pugni, schiaffi, deciso com’ero a fargliela pagare. Ci pensarono gli altri a farmi smettere, con una pioggia di colpi che mi costrinse a lasciare la presa. Mi rannicchiai coprendomi la testa con le mani e aspettai che la loro ira sfumasse. L’intervento di alcuni professori mise fine alla cosa; andai in classe dolorante quel giorno, pieno di lividi e graffi.
Ma la ferita più grande non era visibile, ed è quella che più mi provocò sofferenza. Avevo perso per sempre la mia Anna, e dentro di me qualcosa era cambiato irrimediabilmente.









35

Finalmente vedo Sonia uscire dalla stanza di Maurizio; sta entrando da Andrea. Quel grassone maledetto, dovrei fargliela pagare già solo per la fatica che ho fatto per portarlo qui e sistemarlo su quel tavolo! E’ tempo di uscire di qui e raggiungere la psicologa. Mi cambio e poco dopo sono da lei; intenta a sostituire la flebo ad Andrea non si accorge di me.
«Inutile Sonia, non ne ha più bisogno!»
«Cavolo M. mi hai spaventata!»
«Ah sì? Scusami allora. Come sta il grassone?»
«Dorme, ho dovuto somministragli un calmante: si agitava troppo!»
«Tra un po’ non si agiterà mai più! E’ il suo momento, sei pronta?»
«Certo, più che mai!»
Devo ammettere che mi procura un certo fastidio sapere che questa donna sia così affascinata da un altro uomo; se ci penso, il mio odio per l’ospite della terza stanza non fa che crescere! Ma per il momento concentriamoci su Andrea, questo schifoso essere dalla pelle flaccida!
«Sonia sveglialo!»
Senza farsi pregare prepara una siringa e inietta il contenuto nel braccio dell’uomo. Passano poco più di due minuti e gli occhi di Andrea cominciano ad aprirsi. Un attimo dopo ricomincia ad agitarsi; il suo corpo nudo, inguardabile, assomiglia ad un enorme massa gelatinosa. Mi avvicino alla sua testa, mi chino su di essa e la prendo tra le mani. Poi con un tono troppo sereno, vista la drammaticità della situazione, gli parlo nell’orecchio:
«Sai quanti grassoni come te pagano fior di quattrini in interventi per perdere peso? Senza contare quelli che ci provano con le più disparate diete! E la cosa più mortificante è che la maggior parte di loro alla fine neanche ci riesce. Tu sei fortunato, caro Andrea, ti  faccio gratis il tuo intervento!»
Data la mole, a differenza degli altri, ho utilizzato cinghie molto più grosse per legarlo su quel tavolo. E ho fatto bene; dopo le mie parole si dibatte come un ossesso.
«Smettila di dimenarti, Andrea, rendi tutto molto più complicato!
«Sonia, passami il bisturi.»
La mia assistente svolge il suo compito senza battere ciglio; come una vera professionista mi porge l’attrezzo da chirurgo. I mugugni dell’obeso sono sempre più forti attraverso il suo bavaglio; se potesse sceglierebbe la morte piuttosto che le orribili sofferenze che sta per subire. Io gli darò entrambe le cose, ma nell’ordine contrario! Con un pennarello rosso traccio una linea che parte dal centro del suo torace fino al pube. Poi un’altra dal fianco sinistro al destro, attraversando l’enorme ventre. Inizio a tagliare, partendo dall’alto; il bisturi segue quella linea rossa e, a mano a mano che vado avanti, è proprio il rosso il colore dominante. Sonia segue il percorso del mio bisturi cercando di tamponare il sangue, impassibile e incurante delle smorfie di dolore di Andrea.
«Adesso la mia assistente ti farà un’altra iniezione, una anestesia locale che per ora non ti farà più sentire il dolore. Non lo reggeresti, e voglio assolutamente che tu possa vedere quello che ti farò!»
Completamente anestetizzato dal torace al basso ventre, l’uomo non soffre più, almeno per il momento. Con l’aiuto di pinzette e forbici divarico la pelle precedentemente intagliata. Metto a nudo quel corpo, e tutto il grasso che esso contiene. Il recipiente di plastica che Sonia ha collocato ai piedi del tavolo si riempie, ogni trancio di grasso tagliato gli viene mostrato. Provo disgusto, l’odore è nauseabondo e, mai come ora, sono contento di indossare la mia mascherina. Il mio disagio è totale ma continuo imperterrito, fingendo un’ insolita calma.  
Dopo dieci minuti e qualche chilo in meno Andrea inizia a contorcersi di nuovo, sempre di più, a mano a mano che il dolore aumenta fino a smettere d’un colpo, nel momento in cui Sonia, con un colpo violento e preciso, gli trafigge il cuore con un grosso coltello.
«Pensavo che potesse bastare, non credi?»
«Sì certo, usciamo di qui.»
I ricordi del mio triste passato mi aiutano parecchio nell’adempimento di tutto ciò, ma lei, come può? Non posso credere che solo l’amore per Maurizio le dia la forza per compiere tutto questo. Forse l’ultima parte del suo diario spiegherà tutto.








36

Come un rituale dal quale non può esimersi, tutte le sere Sonia beve un bicchiere di vino rosso. Passando davanti alla cucina noto che il suo bicchiere è già colmo mentre lei è intenta a prepararsi qualcosa da mangiare. Ho bisogno di avere un po’ più di tempo per poter finire di leggere il suo diario.  Approfittando, dunque, che è di spalle verso nel bicchiere qualche goccia di un potente sonnifero. Quando dormirà potrò agire tranquillamente. Prendo un’altra bottiglia di vino, la apro e riempio un altro bicchiere.
«Come stai piccola?»
«Tutto bene grazie, vuoi mangiare con me?
Non c’è molta scelta, uova e tonno!»
«No, ti ringrazio, non ho fame.»
Si siede al tavolo di fronte a me e, dopo aver bevuto un sorso di vino, inizia a consumare il suo pasto. Mi limito a guardarla; l’eleganza di ogni suo gesto, persino il più semplice, mi lascia come sempre in ammirazione.
«Non sei molto loquace stasera, non è da te! Sicura di stare bene?»
«Sì, ti assicuro che sto bene M., sono solo un po’ stanca.»
Passano più o meno dieci minuti nei quali Sonia si limita a guardarmi di tanto in tanto, in silenzio, con un’espressione stranamente indecifrabile. Non riesce nemmeno a terminare il suo pasto, si accascia sulla tavola assopita.....
Più di un’ora che dorme, sono ormai certo che non rischia di svegliarsi. Prendo il suo diario e vado sul divano. Le ultime pagine sono scritte in rosso, molto più calcate e con una grafia più disordinata. La violenza subita nella sua tenera età è descritta nelle prime due pagine quando, a soli otto anni, fu stuprata da un amico del padre.
Me ne parlò, so tutto, quindi sorvolo e vado avanti. Poi lo stupore è totale a tal punto che la parola mi esce ad alta voce, involontariamente!
«Cazzo!»

 “Devono pagare, giuro che non avrò pace fino a che non li avrò fatti soffrire tutti come ho sofferto io! Ne restano due, so dove trovarli, prenderò il mio tempo, e avranno ciò che si meritano anche loro! E, attraverso i canali della polizia, sono riuscita a scovarli.  Vittorio Brunelli! E Sandro Gondini! Farete la fine degli altri!”

Non ci posso credere! Vittorio Brunelli e Sandro Gondini furono trovati entrambi a una settimana di distanza. I loro corpi fatti a pezzi e buttati nei rifiuti. I giornali ne parlarono per settimane. E non furono i soli: nel giro di due mesi sparirono cinque persone. Fecero tutte la stessa fine, ed è stata lei! Da quel che so meritavano quella fine, almeno quanto quelli che ho portato qui. Una feccia della peggiore specie; ma... non avrei mai creduto Sonia capace di fare cose del genere!
Almeno non fino a quando l’ho vista in azione qui; ora capisco meglio.
Adesso tutto è più chiaro e mi rendo conto di quanto ho rischiato. Non c’è più tempo: devo agire subito! Questa notte mettiamo la parola fine a tutta questa storia! Strappo le pagine scritte in rosso e, dopo averle piegate per bene, me le infilo nella tasca dei pantaloni. Ripongo il diario senza neanche preoccuparmi di richiudere la valigetta. Non ha più importanza. 















Capitolo finale: MAURIZIO































37

Era la primavera del 1976, una giornata bellissima. Ci trovavamo nella pineta presso il collegio; quando ci portavano lì eravamo tenuti a metterci tutti in fila per due, così potevano tenerci d’occhio. Poi, una volta a destinazione, potevamo disperderci senza allontanarci troppo dai nostri sorveglianti. Ero perennemente con lo sguardo rivolto verso l’alto: i pini giganteschi ed i rami intrecciati tra  loro rendevano persino difficile il passaggio dei raggi del sole. Ma quello che mi interessava vedere e scoprire erano i nidi degli uccelli. In quel periodo ce ne erano a centinaia, cercavo di scovarli lassù in alto, riconoscibili solo scrutando attentamente tra quei rami. Quel giorno, mentre camminavo su quel tappeto naturale formato da milioni  e milioni di aghi di pino ormai secchi, udii un cinguettio. Mi avvicinai al luogo da dove proveniva, guardai tra un mucchio di foglie e di pietre, e lo vidi. Un piccolo passerotto, era caduto probabilmente dal suo nido. Se ne stava lì per terra, strillando con quanto fiato aveva in gola per la fame. Il becco tutto giallo, il collo ancora senza piume, come quasi tutto il suo corpo. Non potevo credere ai miei occhi: era la prima volta che ne vedevo uno da così vicino, e in più potevo anche toccarlo! Presi la decisione di occuparmi di lui:  con dei rametti e delle foglie costruii un nido e lo collocai all’interno di un tronco cavo. La pineta era una nostra meta quotidiana, non avrei avuto nessuna difficoltà a portargli da mangiare tutti i giorni. E così feci. Mi ero procurato un pezzo di canna di bambù di circa dieci centimetri. L’interno cavo mi permetteva di introdurvi pezzettini di mollica con un po’ di acqua, poi con un bastoncino schiacciavo il tutto fino a renderlo una poltiglia. Quell’uccellino ne andava ghiotto: quando mettevo quel bastoncino davanti al suo becco incessantemente aperto, faceva un solo boccone dell’intruglio che gli preparavo. La cosa durò per alcuni giorni ma, malgrado avessi sempre preso tutte le precauzioni per non essere seguito, qualcuno mi vide. Il mio piccolo segreto fu scoperto!
Quello che stava per accadere contribuì molto a rendermi quello che sono oggi. Ne sono certo!
Accadde il quarto giorno: mi avviai verso quel tronco che offriva riparo al mio piccolo protetto. Come sempre feci molta attenzione che nessuno mi vedesse, ma con enorme stupore notai alcuni ragazzi che erano già lì! Accelerai il passo, pensai ad un caso, mi dicevo che erano solo di passaggio. Speravo che il passerotto non facesse rumore, per non attirare la loro curiosità. Invece lo udii, e strillava più forte che mai. Ancora loro, li riconobbi subito nonostante fossi ancora a debita distanza. Cominciai a correre e, in pochi secondi, li raggiunsi; uno aveva il nido tra le mani. Come sempre ridevano, avevano formato un cerchio e se lo lanciavano. Ogni tanto l’uccellino cadeva, lo raccoglievano e dopo averlo riposto nel nido ricominciavano. Con l’affanno e la voce che mi uscì a singhiozzi mi rivolsi loro:
«Ragazzi, vi prego, smettetela!»
Per tutta risposta ricevetti una spinta che mi fece cadere.
«Che cazzo vuoi francese! Vattene se non vuoi che ti gonfiamo di botte pure oggi!»
Cercando di impietosirli continuai:
«L’ho trovato infreddolito e affamato qualche giorno fa, ogni giorno gli porto qualcosa da mangiare. Rimettetelo al suo posto, vi prego.»
Smisero di lanciare quel nido, poi si raggrupparono e parlottarono tra di loro. Per un breve momento pensai di avercela fatta, di averli convinti, mi alzai e accennai un’espressione di gratitudine. Il ragazzo che aveva il nido tra le mani si girò, fece due passi verso di me e lo mise per terra delicatamente. Il mio sorriso si allargò, non potevo crederci: avevano un briciolo di sentimento? Un altro venne verso di me, distolsi lo sguardo dal nido e guardai lui, le braccia tese verso l’alto e, nelle mani, un’enorme pietra.
«Ora non soffrirà più il tuo uccellino!»
Non si limitò a lasciar cadere quel masso, lo lanciò con una tale forza!!! Non dissi più nulla, loro scapparono ridendo.
Piangendo rimasi seduto accanto al grosso masso, divenuto ormai la pietra tombale del mio piccolo amico.
Li guardai tutti con odio giurando che presto o tardi avrebbero pagato. La violenza genera altra violenza.... quanto è vero!










38

E’ notte fonda quando entro nella terza stanza; il rumore del neon che si accende sveglia Maurizio.
«Speravi fosse la tua dolce dottoressa? Mi dispiace, lei è fuori gioco per un po’. Non preoccuparti, non le ho fatto nulla, l’ho solo aiutata a dormire come un angioletto. Questo mi lascia abbastanza tempo per occuparmi, nel frattempo, di te: ti ho trascurato troppo in questi giorni!»
Accosto la sedia al tavolo; sedendomi noto che le cicatrici che aveva ai polsi e alle caviglie sono pressoché guarite. Le cure amorevoli di Sonia sono servite, contrariamente agli altri anche il suo colorito è più roseo. Il viso addirittura è di un rosso acceso ma questo probabilmente è da attribuire alla rabbia che lo sta invadendo.
«Ascoltami bene, ora ti tolgo il bavaglio: se gridi ti prometto che ti infilzo un occhio con questo!»
Gli mostro il bisturi che ho nella mano, molto lentamente glielo passo davanti al volto quasi a sfiorarlo.
«Se ti agiti e continui a gridare faccio la stessa cosa  all’altro! Hai capito bene?»
Come in preda ad una sorta di tic nervoso i suoi occhi cominciano ad aprirsi e a chiudersi velocemente, poi accenna dei sì con la testa. Gli libero la bocca: le sue labbra secche e screpolate sanguinano, ancor più quando cominciano a muoversi per parlare.
«So che non uscirò vivo di qui, ti chiedo solo di farlo in fretta.»
«Questo lo decido io. Piuttosto dimmi: in che modo pensavate di liberarvi di me tu e la bella Sonia? Non negare, vi ho osservato ogni volta che veniva da te, so tutto!»
Sbalordito scruta ovunque nella stanza, il suo sguardo va sul soffitto, poi sulle pareti ed infine torna su di me.
«Sì, c’è una minuscola video camera, proprio lì, dietro quella grata per l’areazione. Quindi ora rispondi alla mia domanda.»
«Non abbiamo pianificato un bel nulla, mi ha sempre ripetuto che mi avrebbe fatto uscire di qui ma non so in che modo. Avrebbe pensato a tutto lei, credimi, non so altro. Mi ha parlato di te, so chi sei, io ti riconosco adesso!»
«Bene, ora sai perché morirai!»
Non ha il tempo di replicare: in un attimo lo costringo al silenzio imbavagliandolo di nuovo. Penso sia stato sincero e, comunque, non ha più importanza neanche questo, tutto sta per compiersi. Solo ora comincia ad agitarsi e contorcersi, conscio che questa sarà la sua ultima notte.
Come prima, gli mostro il mio bisturi mettendolo davanti ai suoi occhi; di colpo si calma.
«Sto per farti un’iniezione, è un potente antidolorifico: intaglierò quei disegni che hai sul petto, non sentirai nulla. Ricorda: se mi rendi il lavoro difficile morirai nelle più atroci sofferenze. Se ti va puoi anche guardare: ho piazzato uno specchio sopra di noi per questo!»
Qualche minuto per far agire l’anestesia, tutto quel che mi serve è su di un tavolino alla mia sinistra. Un piccolo laser per incidere con precisione seguendo i tratti da me disegnati, il bisturi, pinzette, garze e cotone. Posso cominciare. L’odore della pelle bruciata si diffonde rapidamente nella piccola stanza. Lui non fa una piega; insensibile al dolore ha gli occhi serrati ed è immobile. Incido tre dei quattordici pezzi disegnati, poi delicatamente con il bisturi mi accingo a prelevarli. Con molta cura depongo i pezzi nel contenitore alla mia destra colmo di liquido amniotico. Quasi un’ora per i primi tre; dovrò fargli un'altra iniezione, non voglio che soffra per adesso. Rassegnato e terrorizzato non muove un muscolo, quasi fosse anestetizzato completamente. Ciò mi permette di eseguire il tutto con la massima precisione: ogni pezzo della sua pelle è integro e lui sta per diventare un puzzle umano. Dopo quasi tre ore asporto la settima parte di pelle. Mi sento privo di forze, ma soddisfatto per il lavoro ben svolto.
Tra poco comincerà ad avvertire dolore, e questo in un crescendo senza fine. Devo solo aspettare. Lo lascio per un po’, il tempo di  fare un paio di cose e bere qualcosa.











39

Dieci minuti dopo torno nella stanza, Maurizio non ha ancora aperto gli occhi. Lo fa ora, resosi conto che sono tornato. Solo un attimo, un fugace sguardo verso l’ alto, a quello specchio che riflette il suo petto. Carne viva, rossa, muscoli e nervi scoperti, sangue. Ancor prima del dolore inizia ad urlare in un silenzio costretto. Ora è tempo di dare libero sfogo a queste urla e, con un gesto, taglio il suo bavaglio.
«Maledetto! Cosa mi hai fatto! Aaaaaahhhhhh! Sei un pazzo furioso! Bastardo!»
«Urla, urla pure Maurizio, ma ti conviene ascoltarmi adesso. Hai la possibilità di aver salva la vita, e un buon chirurgo plastico potrebbe rimettere tutto a posto.»
«Che cazzo vuoi ancora? Non ti basta quello che mi hai fatto?»
«Guarda l’orologio sul muro alla tua destra Maurizio: mancano esattamente dieci minuti alle sette. Hai dieci minuti di tempo per comporre il puzzle sul tuo petto. Hai i pezzi sul tuo fianco destro e lo specchio sopra di te. Ora ti libero le braccia: avrò il mio bisturi sulla tua gola. Scaduto il tempo se non hai finito, te la taglio! Ti conviene cominciare subito, il dolore sta arrivando, e sarà sempre peggio!»
«Maledetto pazzo! Aaaaahhhhhh! Non lo farò, hai capito? Ammazzami! Fallo!»
«Posso anche far sparire il dolore... dipende da te. Ricomponi quel puzzle!»
Non resisterà a lungo, troppa sarà la sofferenza; e infatti, poco dopo, ha già la mano destra nel recipiente che contiene la sua pelle. Le sue grida sono sempre più forti; con gli occhi sgranati fissa lo specchio e cerca di posizionare il primo pezzo!
«Sei stato fortunato, c’è un capezzolo su quel pezzo, non è difficile. Dai, sono già passati tre minuti Maurizio!»
Dopo cinque pezzi ricollocati, tra atroci sofferenze e urla, finalmente lei m’appare. Barcollante, ancora sotto gli effetti del soporifero, con una lunga vestaglia semi aperta.
«Noooo! M.! Fermati! Lui nooo!»
Le sorrido, tenendo ancora più stretta la testa di Maurizio e facendo più pressione con il bisturi sulla sua gola.
«Oh sì cara Sonia... lui come tutti gli altri!»
Sorretta dalla pesante porta, lasciata da me volontariamente aperta, cerca disperatamente di rimanere in piedi. Ancora pesantemente sedata ha l’aria di un burattino, barcolla, cade e si ritrova seduta per terra. La testa in avanti e i capelli che le coprono il viso. Ma le grida di Maurizio sono così forti e, l’attimo dopo, la psicologa riprende di nuovo coscienza. Non prova ad alzarsi, cerca di venire verso di me a carponi, ma cade di nuovo.
«Ti scongiuro M., lascialo stare! Lui è cambiato!»
«Se così fosse non sarebbe qui Sonia! Dai, fai uno sforzo, tirati su, ha quasi finito di ricomporre il puzzle! Mancano solo due pezzi, e gli restano tre minuti!»
Con uno sforzo tremendo tenta di alzarsi, si aggrappa alla sedia e alla fine ci riesce. Si sta riprendendo, tempismo perfetto!
«Bene, ora resta lì, non fare un altro passo se tieni davvero a questo bastardo!»
Incredibilmente, nonostante il dolore acuto e la notevole difficoltà, con le mani che gli tremano sempre più, Maurizio colloca l’ultimo pezzo. E’ il suo istinto di sopravvivenza a guidarlo; ci contavo molto, avevo visto giusto. La dottoressa sembra del tutto sveglia ora, paralizzata dalla paura: sa che non esiterei un attimo a sgozzarlo.
«Ora Sonia, con molta calma, avvicinati al tavolo: c’è una siringa già pronta, fagli l’iniezione di morfina. Se la merita: è riuscito a completare il puzzle. Dopo di che torna dov’eri!»
Sono costretto ad alzare la voce per farmi sentire, talmente possenti sono le grida di Maurizio. Lei fa esattamente ciò che le ho chiesto, in silenzio, e con gli occhi lucidi. Poi, tornata nel punto esatto in cui era prima, mi guarda e, in un tacito accordo, decidiamo di aspettare che nella stanza torni il silenzio. Il dolore si attenua, i lamenti si affievoliscono; ormai insensibile al dolore, Maurizio si placa. Afferro i suoi capelli con forza; nel farlo perdo un attimo il controllo della mano destra e il bisturi lo ferisce leggermente facendo fuoriuscire un rivolo di sangue. Non perdo di vista Sonia che ha un sussulto e accenna uno slancio in avanti.
«Se il tuo sentimento per quest’uomo è così grande, spiegami per quale motivo non ti sei mossa prima. Ne hai avuto la possibilità, siamo stati molto vicini in questi giorni, anzi direi vicinissimi in alcuni momenti!»
«Non ho mai voluto farti del male M., non ho smesso di pensare ad una soluzione, avevo deciso di parlarti oggi, ti avrei implorato di risparmiarlo.»
«Risparmiarlo? Dei sette, lui è il peggiore, non merita nessuna pietà! Mi hai mentito continuamente, perché dovrei crederti adesso?»
Inaspettatamente la voce di Maurizio interrompe il nostro dialogo.
«Sonia... lui ci ha visti. Sempre!»
Come prima lui adesso è lei a perlustrare intorno con lo sguardo; cerca in ogni angolo, in ogni pertugio, l’occhio di una telecamera. Intuisce guardando la piccola grata sopra la porta. Di colpo la sua voce cambia tono.
«Mi spiavi! Non posso crederci!»
«Neanche io posso credere a quello che mi dici, sono più che convinto che il motivo per cui non hai tentato nulla fino ad ora è uno solo: la tua incontrollabile voglia di massacrare questi porci! Ci hai preso gusto, non mi avresti mai fermato prima.»
Il bisturi nella mia mano destra non si sposta di un millimetro. La lama è ancora posizionata nello stesso punto mentre con la sinistra frugo nella mia tasca. Ne traggo i fogli del suo diario, quelli scritti in rosso, la prova inconfutabile del suo gusto ad uccidere! Alla vista di quei pezzi di carta nella mia mano barcolla di nuovo, stavolta il sedativo non c’entra. Consapevole di essere ormai per me un libro aperto, si arrende all’evidenza e, per la prima volta, è l’altra lei che mi parla.
«Chi meglio di te può capirmi? Sì, è vero, ci ho preso gusto, almeno quanto te M.! E questo ci rende ancora più complici, quindi puoi fidarti di me.»
«La cosa che più mi fa rabbia è che pensavo veramente di conoscerti bene Sonia, come ho fatto a non capire!»
Nulla in quel momento preciso lascia presagire quello che sto per fare: con un gesto fulmineo metto fine all’esistenza di Maurizio! Un taglio netto, e il suo collo si apre. Emette solo un rantolo e fiotti di altro sangue. Lei, colta di sorpresa in un primo momento, mi guarda sgomenta, poi mi si avventa contro gridando con tutta la forza della disperazione.
«Noo! Perché? Non dovevi farlo, non lui!»
Con il braccio teso e la lama ancora nella mia mano le intimo di fermarsi; si blocca e si china ad abbracciare quel corpo martoriato.
«Tutto era stato pianificato Sonia, tutto studiato nei minimi particolari, fin dalla prima volta, nel tuo studio ricordi? Ci piacemmo subito entrambi, ci fu un’intesa dal primo momento, mi confidai con te e tu con me. Mi parlasti della violenza subita in tenera età, di quanto ancora soffrivi per quello. Persino il numero sette ci accomunava, un numero che mi perseguita da sempre, e tu fosti violentata un sette luglio. L’idea mi balenò nella testa appena ti lasciai quel giorno, e tutto si è svolto esattamente come lo avevo programmato. Tranne il tuo innamoramento per questo stronzo!»
Adesso il suo sguardo è pieno d’odio, fa un altro passo nella mia direzione.
«Tu mi hai appena negato la possibilità di tornare a vivere! La pagherai per questo!»
«Pensi davvero di avermi trovato per caso?
La descrizione dettagliata della casa, costruita su una strada che percorri una volta l’anno, per andare da tua madre il giorno del suo compleanno. Non te ne sei mai perso uno, e sapevo anche questo. Io ti aspettavo Sonia; sei arrivata con un giorno di ritardo tanto che ho creduto per un po’ di aver sbagliato tutto! E il nome di quei bastardi? Credi davvero che fossi ubriaco e drogato quella sera? Quando ti elencai nomi, cognomi ed indirizzi? Sapevo che li avresti cercati, avevo stuzzicato troppo la tua curiosità.»
«Maledetto! E perché tutto questo? Perché mi volevi qui? Parla!»
«Perché tutto possa compiersi come previsto. Tu sei essenziale!»
A mano a mano che le svelo tutto, assume un atteggiamento sempre più aggressivo. Incurante dell’arma che ho in mano si avvicina ancora, so bene che malgrado io sia molto più forte di lei, mi ridurrebbe all’impotenza in un attimo se lo volesse. Indietreggio, pensando che anche questo lo avevo previsto, ma ho ancora bisogno di qualche istante per completare l’opera! Di nuovo un urlo di dolore, prolungato questa volta: è il mio. Quando, liberatomi del camice, incido sul mio petto nudo un numero, il sette! Un taglio netto, profondo e in orizzontale, dalla sinistra alla destra del mio cuore, poi uno in verticale fino all’inguine. E allora penso: puoi colpire adesso Sonia!
«Ma che cazzo fai? Fermati, sadico pazzo!»
Con un movimento velocissimo gira su se stessa, il calcio colpisce con precisione la mia mano armata di bisturi. Quest’ultimo vola via e, ancor prima che possa vedere dove è caduto, un altro calcio mi raggiunge sul viso. La violenza del colpo è tale che mi manda a sbattere contro il muro e quindi sul pavimento. Riesco a mettermi in ginocchio, sputo sangue, la guardo e le sorrido.
«E’ tutto quello che sai fare dottoressa?»
Ormai in preda ad un raptus di violenza inaudita mi sferra un altro calcio nello stomaco e mi ritrovo a terra di nuovo, vicino alla porta della stanza. Con il volto tumefatto e insanguinato, il petto lacero, cerco di trascinarmi verso l’esterno; la vedo raccogliere il bisturi.
«Conosci il mio passato, ci si abitua al dolore! Dovrai davvero fare di meglio, cara Sonia.»
Raccolgo tutte le forze che mi restano per strisciare verso la porta d’uscita della casa. Rimane pochissimo tempo, devo farcela. Le cariche sono innescate, sta per esplodere tutto!
«Dove credi di andare? Non avrei mai voluto arrivare a tanto M., ma non mi lasci scelta. Devi pagare per quello che mi hai fatto, come tutti gli altri!»
Ho quasi raggiunto l’ingresso, mi giro e la vedo proprio dietro di me,con lo sguardo inferocito e la lama nella sua mano destra.
«Stranamente non mi hai mai chiesto cosa fossero tutti quei contenitori neri che  sono in tutte le stanze e persino al piano di sopra. Allora te lo dico io: è esplosivo! Abbiamo cinque minuti per uscire di qui, dopo di che esploderà tutto!»
A queste parole si guarda intorno, sembra rendersi conto solo ora di quegli oggetti cilindrici neri negli angoli della casa. L’attimo dopo è vicino a me; l’ennesimo calcio sul fianco mi fa sbattere alla porta d’entrata. Ci siamo quasi.
«Brutto figlio di puttana! Usciamo di qui! Sei finito M.!»
Mi afferra per i capelli, apre la porta e mi trascina fuori. Non avrei mai creduto avesse tanta forza; mi  tira a fatica per una decina di metri, poi si ferma di colpo! La voce nel megafono arriva forte, le parole pronunciate distintamente.
«Dottoressa Sonia Mannìci! Getti quell’arma e metta le mani dietro la testa!»
Alzo lo sguardo e, malgrado il velo di sangue che ho negli occhi, vedo le volanti, almeno cinque...ci sono poliziotti armati, ovunque. Furgoni blindati e ambulanze.
«Sonia.... è finita!»
Con il bisturi stretto tra le due mani, la bocca spalancata pronta ad urlare il suo odio, sta per sferrare l’ultimo colpo. Lo sparo riecheggia nell’aria, proveniente dall’enorme salice davanti alla casa, la postazione ideale per il cecchino. Il proiettile colpisce Sonia in piena fronte e lei si accascia su di me l’attimo dopo. L’espressione è sorpresa ma la morte l’ha resa di nuovo bella. Poi rumori di passi tutto intorno, gente che corre, un uomo si avvicina, mi libera del corpo della psicologa e si china su di me.
«Ispettore Dantòn! Dio sia lodato: è ancora vivo! Presto l’ambulanza! E voi che cazzo aspettate, ispezionate la casa!»
«No! Commissario sta per esplodere tutto lì dentro, richiami i suoi uomini!»
L’uomo non si fa pregare, dà l’ordine di allontanarsi il più possibile, mi mette una coperta addosso e mi trascina via.
Sono nell’ambulanza quando il fragore ci fa sobbalzare tutti; si avverte un boato tremendo, non rimarrà molto di quella casa. Il commissario si siede al mio fianco, mi prende la mano e la stringe.
«Ispettore tenga duro, ho ancora bisogno di lei. Vedrà che tornerà come nuovo!»
Riesco a sorridergli, e addirittura anche a parlargli!
«Commissario scusi, ora devo svenire!»









40

Capisco dove mi trovo grazie al mio olfatto: gli odori sono così familiari. A fatica apro gli occhi, la sagoma sfuocata dell’infermiera è la prima cosa che vedo.
«Buongiorno ispettore! Bentornato tra i vivi! Decisamente lei è uno dei più assidui frequentatori di questo nostro “albergo”. Non si sarà mica preso una cotta per me? Comunque per un invito a cena se ne può anche parlare!»
«Buongiorno Katia, da quanto sono in ospedale?»
«Due giorni e due notti ispettore Dantòn; questa volta era davvero messo male! E’ fortunato ad essere ancora vivo, ho saputo ciò che è successo.»
«Già, sono stato fortunato!»
Ora tutto mi appare più nitido; la osservo mentre, con fare disinvolto, mi risistema il letto. Dietro la porta in vetro vedo il commissario parlare con un medico.
«Ora devo lasciarla ispettore, il suo capo mi ha chiesto di avvisarlo quando avesse ripreso conoscenza. Ci vediamo dopo.»
«Va bene Katia, a dopo. E per quell’invito a cena, appena mi rimetto in piedi ci si organizza!»
Esce sorridendo, con un passo ed una postura che non le si addicono, visto l’imponenza dei suoi centoventi chili. Appena fuori si avvicina all’uomo che stringe la mano al medico ed entra. Magro, quasi pelle e ossa, con un cancro che lo sta divorando da anni. Mi ha insegnato tutto, fin dall’inizio quando mi arruolai. Sarà davvero una grande perdita, sono rari gli uomini come lui. Mi guarda in silenzio per un po’, poi prende lo sgabello vicino all’armadietto e si siede accanto a me.
«Questa sua ostinazione a voler fare sempre tutto da solo la porterà nella tomba molto presto, mio caro Dantòn! E non ci sarò per sempre a pararle il culo. Sono stato chiaro?»
«Chiarissimo commissario!»
In un altro momento starebbe lì a sbraitare e ingiuriare come un pazzo, ma sta facendo uno sforzo terribile per mantenere la calma.
«Il medico mi ha chiesto di non affaticarla ispettore, quindi se non se la sente di parlare posso ripassare più tardi.»
«Non si preoccupi, ce la faccio commissario. Non le ho ancora detto grazie, ma mi dica: come ha fatto a trovarmi?»
«Una telefonata anonima. Eravamo sulle tracce della dottoressa Mannìci che inspiegabilmente aveva affittato una camera in un albergo per una notte, circa una settimana fa, a cinquanta chilometri appena della casa dove vi abbiamo trovati. All’alba di quel giorno ricevemmo quella telefonata, forse ad opera di un cacciatore, o di un ciclista, non ho idea. Il tizio ci disse che aveva sentito urlare, e che probabilmente stava succedendo qualcosa di brutto. Ho pensato subito a lei Dantòn, e per fortuna siamo arrivati in tempo.»
«Messo a tappeto da una donna! Bel poliziotto che sono!»
«La smetta ispettore, sa bene quanto me di che genere di donna stiamo parlando! Ne ha messi al tappeto più di uno in centrale, ricorda?»
«Già, era forte la psicologa!»
«Nonostante l’esplosione abbia distrutto tutto o quasi, i sette corpi sono stati recuperati. I nostri medici legali lavorano ininterrottamente da allora; le risparmio i particolari ispettore, roba da non credere! Parlo del modo in cui sono stati torturati ed uccisi. Quella donna era più pazza dei suoi pazienti! E dire che ha anche lavorato per noi! E questo le ha sicuramente facilitato il compito: ha avuto sempre a disposizione il necessario per cercare e poi trovare quegli uomini.»
«Mi dica commissario, come siete arrivati a lei? A sospettarla voglio dire.»
«Indagando, abbiamo scoperto che ognuno di quegli uomini aveva frequentato una donna. E tutti nello stesso mese; la descrizione della donna era praticamente sempre la stessa, non poteva essere una coincidenza. E lei ispettore? Come c’è arrivato?»
«I calendari commissario, ricorda? In casa di quegli uomini fu trovato un calendario, e ognuno di essi era posto sul mese di luglio mentre eravamo in agosto. La Mannìci si confidò con me, sin dalla prima volta che ci vedemmo. Lei sa commissario che ho avuto anche un rapporto molto intimo con la psicologa, no?»
«Sì lo so ispettore. Quando penso che fui proprio io a mandarla da lei la prima volta. Chiedemmo il suo aiuto per quel caso del killer delle prostitute. Continui Dantòn!»
«Mi raccontò di essere stata violentata in tenera età, da un amico del padre. Mi disse che accadde in un mese di luglio, esattamente il sette luglio. Non dimentico mai una data commissario; può immaginare il seguito. I primi dubbi mi vennero vedendo quei calendari nelle case di quei poveracci, e come vede non mi sbagliavo.»
«Lei sa chi erano quelle persone vero, ispettore Dantòn?»
«Certo, ex compagni di collegio, li conoscevo tutti. Perché?»
«So che eravate tutti nello stesso collegio e questo penso rimarrà per sempre un mistero; perché proprio loro!! Ma voglio sapere se sa chi erano realmente!»
«Ci siamo persi di vista da tantissimi anni: ognuno ha preso la sua strada, non ho idea di cosa siano diventati dopo!»
«Che resti fra noi ispettore, lei non ha idea da che genere di persone ci ha liberato la nostra dottoressa Sonia Mannìci! Stupratori, pedofili, assassini: ognuno di loro si era macchiato dei più efferati delitti. Sta venendo tutto fuori adesso dalle analisi del DNA, gente che l’ha sempre fatta franca, e che non mancherà a nessuno! Quindi lei pensa che il movente sia stato quello? Una specie di vendetta per la violenza che la Mannìci aveva subito? Non ne avremo mai una prova concreta purtroppo!»
«E’ quello che pensavo anche io commissario, fino a che ho trovato il suo diario. Guardi nella tasca del mio pantalone, lì sulla sedia.»
L’uomo si alza, fruga nelle tasche e ne trae le pagine; una grafia inconfondibile, nota a tutti noi per i molti referti compilati dalla psicologa. Dopo averne lette alcune torna a sedersi raggiante.
«Se poi ha bisogno di una ulteriore prova commissario, basta che guardi questa!»
Tiro via il lenzuolo che mi copre ed alzo il camice che ho addosso. Alla vista dell’enorme cicatrice a forma di sette il suo sorriso lascia posto ad una smorfia. Visibilmente scosso volge lo sguardo dall’altra parte.
«Si ricopra ispettore, ho parlato con i medici, dicono che possono farla sparire quasi del tutto.»
«No, non voglio! Mi aiuterà a ricordare quanto sono stato vicino alla morte. Oramai fa parte di me!»
«Bene, come vuole, il caso è praticamente chiuso allora! Si è data da fare la bella Sonia! Incredibile! Un’ultima cosa Dantòn: come mai lei si trovava in quella casa quel giorno?»
«Sonia mi chiamò, mi disse di avere notizie certe a proposito di quelle sparizioni. Mi diede appuntamento proprio lì. Penso abbia drogato il caffè che mi offrì perchè mi ritrovai immobilizzato in una stanza buia al mio risveglio. Il resto lo leggerà sul mio rapporto.»
«Si riposi ora, prenda il tempo che vuole e non si faccia vedere per un bel po’! La lascio alle amorevoli cure di Katia.»
«Grazie ancora commissario, a presto.»
Mentre lo guardo uscire non posso fare a meno di ricordare un altro giorno importante della mia vita, quando capii quale sarebbe stato il mio destino!

41

Nell’anno scolastico in cui frequentavo la prima media, la nostra professoressa di italiano ci chiese di fare un tema: che cosa vuoi fare da grande?
La classica domanda rivolta ad un adolescente prima o poi; il mio tema fu scelto come il più bello. L’insegnante prese a leggerlo ad alta voce, subito dopo averlo corretto. Nessuno se lo aspettava, ancor meno io, non lo aveva mai fatto! Ricordo ogni singola parola di quel testo e, a distanza di anni, a volte le recito ancora mentalmente.

“Da grande vorrei fare il poliziotto, secondo me il mestiere più bello del mondo. Combattere l’ingiustizia, la cattiveria, il male in genere, sotto ogni forma si presenti. Il mio desiderio più grande è aiutare i più deboli, difendere le persone maltrattate, e fare di tutto per rendere innocue le persone cattive. Io sarò un bravo poliziotto, farò di tutto per esserlo, questa è una promessa!”

Una sorta di giuramento che, ovviamente, fece ridere tutti ma non la mia professoressa. Mi guardò a lungo dopo aver letto e mi fece un cenno di approvazione con la testa. Colse qualcosa nei miei occhi, forse fu l’unica a capire che quello sarebbe stato davvero il mio destino. Sono un ispettore di polizia ora, e anche bravo, ma non basta. Ben presto mi resi conto che la lotta contro il male era impari e diventai allora quello che sono ora. Un giustiziere freddo e senza scrupoli, deciso con ogni mezzo ad eliminare la feccia che invade le nostre strade, le nostre città, le nostre vite. Sonia aveva deciso di fare la stessa cosa, come biasimarla? Certo all’inizio non lo sapevo, avevo scelto lei perché perfetta per far funzionare il mio piano. Ma ora che so, ho meno rimpianti: due giustizieri erano davvero troppi! 
Prendo il telecomando del piccolo televisore che c’è in alto, in un angolo della camera. Lo accendo e, ovviamente, è la notizia del giorno, ne parlano su tutti i canali. Alzo il volume quando vedo una giovane giornalista in procinto di intervistare il commissario Fulci.

“Sono qui davanti all’entrata dell’ospedale Sacro Cuore dove è ricoverato da due giorni l’ispettore di polizia Massimo Dantòn. Già noto per le sue innumerevoli imprese, e per il suo coraggio, lotta tra la vita e la morte in questo ospedale. Cerchiamo di sapere qualcosa in più dal suo superiore che sta uscendo in questo momento.
«Commissario Fulci, i nostri telespettatori sono tutti in trepidazione, ci può dire come sta l’ispettore?»
«L’ispettore Dantòn è sveglio, i medici hanno sciolto la prognosi, è fuori pericolo.»
«Questa è una notizia bellissima commissario, e ci dica, per quanto riguarda la dottoressa Sonia Mannìci, avete scoperto qualcosa? Perché lo ha fatto? Perché ha ucciso quelle persone?»
«Basta così signorina, ci sarà una conferenza stampa domani pomeriggio. In questo momento le indagini sono ancora in corso, non posso dire nulla. Grazie!»
«Grazie a lei commissario.»
Bene allora per il momento qui dall’ospedale Sacro Cuore è tutto, vi ripasso la linea.”

Penso che la cosa più difficile in tutta questa storia sia stata quella di camuffare la mia voce, quando chiamai la centrale quel giorno all’alba. Esitai a lungo prima di farlo: avrebbe segnato la fine di tutto, la fine di Sonia. Ma la convinzione che quel sacrificio fosse inevitabile e indispensabile mi diede la forza di proseguire nel mio intento. E’ morta per permettermi di continuare, è morta perché tanta gente possa seguitare a vivere! Assorto nei miei pensieri non mi accorgo dell’infermiera che entra.
«Basta così ispettore, spenga quel televisore, ora deve riposare.»
«Sì certo Katia, ne ho proprio bisogno!»



42

Due settimane dopo lascio l’ospedale e finalmente rimetto piede nel mio appartamento. L’odore stantio di umido e muffa mi invade appena varcata la soglia, apro le finestre e alzo tutte le tapparelle, respirando a pieni polmoni l’aria fresca dell’esterno. I pochi mobili impolverati, le mie cose sparse qua e là ovunque mi procurano la tanta ambita serenità. Mi lascio cadere sul divano, deciso a godermi fino in fondo un momento di pace. Quel momento dura molto poco, interrotto dallo squillo del telefono. Mi alzo e raggiungo la grossa scrivania nell’altra stanza;  ci metto un po’ a trovare l’apparecchio, nascosto da fascicoli e varie altre scartoffie.
«Pronto?»
«Buongiorno ispettore!»
«Salve commissario, tempismo perfetto, sono appena rientrato!»
«Bene, sono contento che lei si sia completamente ristabilito. Certo le ci vorrà un po’ per rimettersi del tutto anche psicologicamente, e a questo proposito le volevo consigliare....»
Lo interrompo ancor prima che finisca la frase.
«Una psicologa? No grazie commissario! Me la caverò da solo, non si preoccupi!»
«Maledetto cocciuto! Comunque non la chiamavo per questo: abbiamo terminato tutte le analisi. Come le accennavo l’altra volta in ospedale, il DNA dei sette uomini ci ha rivelato ben più di quanto sperassimo. Casi che erano irrisolti da anni, ora possono essere chiusi: i responsabili erano tra quei sette. Tutti colpevoli dei delitti più atroci!»
«Bene, quindi ci ha reso davvero un favore la Mannìci: senza di lei quella gente avrebbe continuato a farla franca!»
«Ispettore Dantòn, un’altra cosa...»
«Sì mi dica!»
«Nonostante le prove schiaccianti, non intendono divulgare la cosa. Si trattava di persone altolocate, addirittura un parlamentare. Quindi volevo darle la notizia io stesso; nessuno saprà mai niente, nessuno saprà mai chi erano realmente quelle persone. Mi creda ispettore, mi dispiace, ma non dipende da me.»
Pieno di rabbia ascolto quelle parole, ancora più convinto che quello che ho fatto sia stata la cosa giusta.
«Ciò non mi sorprende sa commissario? L’importante è sapere che non potranno più nuocere a nessuno.»
«Già, almeno questo! Si prenda una vacanza Dantòn, cerchi di non pensare più a questa brutta storia. Purtroppo ce ne sono altre di quelle bestie in giro, e abbiamo bisogno di lei. A presto!»
«Arrivederci commissario, e grazie ancora.»
Quando decisi di fare delle ricerche per scoprire che fine avevano fatto quei ragazzi che tante sofferenze mi avevano procurato in quegli anni in collegio, ebbi la conferma di quello che avevo sempre creduto. La malvagità di quando erano adolescenti era cresciuta con loro, non erano cambiati affatto.  Indagando più accuratamente e pedinandone alcuni mi resi conto che erano diventati dei mostri. Il mio desiderio di vendetta che negli anni si era affievolito riprese invece vigore: dovevano morire!
Scavando ancor più a fondo nelle loro vite, mi convinsi che la morte non bastava, dovevano anche soffrire, e soffrire molto. Le loro vite, solitarie e quasi prive di affetti, mi hanno facilitato il compito; rapirli e portarli in quella casa è stato facile. Più difficile è stato trovare il giusto supplizio per ognuno di loro ma credo che il risultato sia stato  soddisfacente. Apro il cassetto della scrivania, tra cianfrusaglie varie trovo quello che cercavo. Una foto, in bianco e nero, la guardo per un lungo istante. Sopra in piccolo c’è una data: cinque novembre 1975.
E’ una foto di gruppo: io sono per terra, gli altri sette hanno tutti un piede sul mio corpo. Sono sorridenti, quasi stessero posando con il loro trofeo di caccia.
Sotto in piccolo c’è una scritta:
da sinistra a destra, Alfredo, Alessandro, Maurizio, Francesco, Roberto, il nostro assistente Domenico detto “la cosa” e Andrea. In basso, molto in basso, Massimo. Il fuoco avvolge la foto, ripongo l’accendino dopo essermi acceso una sigaretta. La guardo mentre le loro facce anneriscono per poi scomparire per sempre.